I saw myself, held myself, hand to hand
Headless, I, too, walked in this strange new land.
In genere, avrei nascosto il mio diario sotto il letto, sperando che nessuno osasse guardarlo. Adesso, invece, vi chiedo di darci un’occhiata. Scorrete rapidamente le pagine. Leggete cosa succede quando quelli del mio gruppo e io decidiamo di iniettare un po’ di rock’n’roll canadese, anarchico, importato, nelle braccia aperte dell’Europa. Dal vivo, come Rhythm Activism, mettiamo in scena un cabaret politico di alto livello che assicura di scuotere, turbare e mettere in discussione. Come? Prendiamo il meglio del cabaret tradizionale europeo, lo combiniamo con il peggio della tv americana, vi gettiamo dentro una musica tradizionale e all’avanguardia piena di sorprese, aggiungiamo un po’ di farsa, costumi e maschere e rinforziamo il tutto con un messaggio sociale impegnato. Facciamo anche ballare la gente, da Berlino a New York. Sulla carta, è dura riprodurre l’energia e il puzzo di quattro ragazzi che suonano come se ogni show fosse l’ultimo, come se ogni parola, ogni movimento delle dita e delle mani contasse quanto un battito del cuore o un respiro. Sul palco, il mondo reale arretra, e si ferma. Il mal di testa scompare. Il cibo unto e nauseante prima dello show non c’è mai stato. Se non fa parte della scaletta, dimenticalo. Quello schizzo di sangue? Mettilo in scena. Il microfono inclinato, l’amplificatore fumante, la corda sfasata, i calzini umidi e sudaticci, i cavi: fottuti cavi economici in sconto, mai che funzionassero bene, maledetti – questo mondo conta. Sono cruciali le qualità di esecuzione della plastica, della gomma, del metallo, del legno, delle corde vocali, dei muscoli e delle ossa – questo è importante. Una stonatura fa male. Trecento paia di orecchie possono non farci caso, ma le tue sì. Fai un casino, e i compagni della band sanno essere implacabili. Dai di più della notte precedente e forse nessuno se ne accorge. Perché sul palcoscenico, per quell’ora o due di questa sera, conta la verità del tuo La vibrante, conta la resa, la sostanza di ciò che stiamo cercando di dire, conta ogni emozione guidata dall’istinto. Non esiste nient’altro. O almeno, questo è ciò che ci convinciamo a credere. Ma la musica, il teatro, lo slancio ad esibirsi sono solo una parte di questa storia a volte triste, a volte esilarante, di uno speciale tour europeo visto attraverso i miei occhi iniettati di sangue. Il resto – i momenti che stanno in mezzo – ha poco a che fare con il mondo della musica, della scenotecnica e della cultura d’avanguardia della band. Il resto sono ‘fiabe urbane’. Parlano della nuova sottoclasse multietnica europea: i poveri che lavorano, gli immigrati, i giovani emarginati e i vecchi che vivono nell’ombra. Per loro non ha importanza la nostra musica, non conta la nostra capacità d’interessare il pubblico, né il nostro tentativo di contribuire a promuovere la ‘resistenza culturale’. L’Europa ama gli artisti che la visitano, e ci tratta bene. Ma quando mai l’Europa è stata generosa con i rifugiati, con i Rom, con i lavoratori immigrati, con i sempre fedeli Slavi, con le donne che lavorano per le strade e i mendicanti che tengono i marciapiedi sgombri da mozziconi di sigarette e torsoli di mele? In un mondo di fantasia globalizzata, queste persone rappresentano il nuovo volto sfregiato dell’Europa: incerto e insicuro, carico di un disincanto crescente. Riflettono un’Europa in movimento, segnata da tensioni politiche e razziali nel momento in cui est e ovest, vecchio e nuovo, competono per il futuro ricordando il passato. Questo libro è stato scritto tra un soundcheck e l’altro, caricando e scaricando l’attrezzatura della band, sorseggiando birra. Ho trascorso il mio tempo con decine di ragazzini di strada, prostitute, barboni e senzatetto che incontravo sulle panchine dei parchi, nei caffè alle stazioni degli autobus e nei vicoli puzzolenti dietro ai locali in cui suonavamo. Tra cibo e bevande condivise, ascoltavo. Queste conversazioni diventavano storie vere e racconti incredibili – la realtà di gente a cui nessuno di solito dava ascolto. Benché non possa rivedere queste persone, potrebbero essere i miei vicini o i vostri, la donna licenziata la scorsa settimana o il tipo che invecchia sulla panchina alla fermata dell’autobus. Potrebbero stare fra il pubblico del nostro prossimo tour o sulla prima pagina di un giornale a chiedere a gran voce Lavoro, Cibo, Pace e Giustizia.
In questo libro ho cambiato i nomi e le caratterizzazioni dei membri della band. Tra le pagine del diario ci sono lettere di uno zio a mio padre. Pensavo che queste lettere fossero scomparse, ma sono riemerse in tempo per essere incluse nel libro. Vedete, questo non è stato un tour normale. Mio padre malato mi ha chiesto di rintracciare suo fratello di cui non aveva notizie da anni. Gli ho detto che avrei provato. Siamo un gruppo, e la nostra musica vive di video, di CD e di Internet. Ogni tanto impareremo che la nostra musica ispira gli ascoltatori, li trasforma in sostenitori e li aiuta a rafforzare o a dar vita alle loro visioni di un mondo nuovo, più libero e più onesto. Vorrei pensare che queste storie daranno pure vita a visioni diverse, anche se per un solo momento – quel momento in cui verità e finzione, realtà e sogno diventano indistinti, in cui i sogni degli stranieri, i sogni di quelli del mio gruppo, i sogni dei miei amici e i vostri sogni, cari lettori, vengono liberati, mettono radici e crescono. Unitevi a me e al Diavolo e lasciate che questo cabaret abbia inizio.
Norman Nawrocki,
Montréal, 2002