Ahmed Nagi: il cammello contro Internet nei giorni della protesta egiziana

| Frammenti vocali in MO:Israele e Palestina | Sabato 12 febbraio 2011 |

Ahmed Nagi, egiziano, classe 1985, è scrittore e blogger. Lavora come redattore per il settimanale letterario Akhbàr el Adab. Ha scritto recentemente Bolgs From Post to Tweet, un resoconto del panorama Internet in Egitto e Rogers e la Via del Drago divorato dal sole (il Sirente, 2010). Il suo blog si chiama Wasa Khaialak. In questo contributo Nagi racconta i primi giorni delle manifestazioni egiziane, viste camminando per le strade de Il Cairo in protesta. [Mentre questo pezzo veniva scritto Omar Souleiman ha annunciato che il Presidente egiziano Mubarak ha lasciato il potere ed è partito da Il Cairo in direzione di Sharm el Sheik. Il potere è temporaneamente nelle mani dell’esercito.]

Personalmente non ero né a favore né contrario, e quando su Facebook mi arrivò l’invito a partecipare alle manifestazioni del 25 gennaio, avevo cliccato “forse”. Le manifestazioni tutto sommato fanno sempre bene: sono belle occasioni per riunirsi, e ultimamente, in Egitto spuntavano come funghi. Passeggiando in una qualsiasi mattinata cairota da via Qasr el-Aini a via Abd al-Khaliq Tharwat era impossibile non imbattersi in almeno sette tra manifestazioni e sit-in: ognuno con le sue richieste specifiche. Nessuna ha mai portato risultati e questo riempiva il cuore di delusione e di disperazioneFin dalla mattina il 25 gennaio sembrava un giorno diverso. Seguivo dall’ufficio le notizie sull’affluenza alle manifestazioni: ne stavano scoppiando in diversi governatorati diversi e in varie zone del Cairo, al di là di ogni aspettativa. La sera, raggiungendo Piazza Tahrir, mi trovai davanti una scena completamente diversa da tutto quello che avevo visto nella mia vita: nonostante i lacrimogeni e i proiettili di gomma, sembrava che in quella piazza la gente stesse vivendo i momenti più felici della sua vita: c’erano energie positive. In un giorno soltanto la speranza era cresciuta, si era radicata come un albero la cui crescita non poteva essere più fermata. Mi imbattei in un giovane che vagava per le strade del centro: «Scusi, come posso arrivare a Piazza Tahrir?». Eravamo a via Hoda Sharawi. Mentre gli indicavo la piazza mi interruppe: «Ma ci sono ancora le manifestazioni o è finito tutto?», «No no, ci sono ancora». Mi rispose di getto: «È che non conosco nessuno… Ho ricevuto un invito su Facebook ed eccomi qui…»Sembrava che fossero decine di migliaia di persone che avevano ricevuto quell’invito, che tantissimi avessero cliccato “sì”, ma anche tutti quelli che avevano cliccato “forse” avevano poi deciso di scendere in piazza.
Le manifestazioni si susseguivano, le forze dell’ordine arrivavano da tutti i lati e, già dal giovedì notte, l’aria de Il Cairo era satura di lacrimogeni “made in USA” (un regalo generoso da parte degli Stati Uniti, che gli egiziani non dimenticheranno mai). Ma i lineamenti della gente e lo spiegamento delle forze dell’ordine rendevano chiaro che l’indomani, venerdì 28 gennaio, sarebbe stato davvero “il giorno della rabbia”Quando mi alzai il venerdì mattina scoprii che la rete dei telefoni cellulari era interrotta e che Internet era stato bloccato in tutto l’Egitto. Il messaggio era chiaro: il Governo stava per compiere una strage.
Da via al-Sahafa uscii verso via al-Galaa, in cui avanzava un corteo gigantesco, pieno di donne e bambini. I dipendenti dell’ospedale di al-Galaa lanciavano le maschere ai manifestanti per aiutarli a resistere ai lacrimogeni.
Appena raggiungemmo la fine della strada iniziò la carica: ho visto coi miei occhi un ufficiale che avanzava tra le file dei soldati per lanciare da solo più di quindici lacrimogeni.
Ho visto coi miei occhi donne fuggire coi loro figli.
Ho visto coi miei occhi bambini rischiare di soffocare.
Ho visto coi miei occhi un lacrimogeno colpire il viso di una donna sui trent’anni. Portava il velo ed è morta sul colpo.
Fuggimmo dal gas, mi sentivo soffocare, stavo per perdere i sensi. Mi gettai nelle stradine laterali di Bulaq: accettai l’invito di mastro Hisham ed entrai nella sua officina. A Bulaq ho visto il commissario rilasciare banditi e persone con precedenti penali soltanto per intimidire gli abitanti del quartiere. Ma ho visto anche la gente di Bulaq che li arrestava, li picchiava, li costringeva a indossare camicie da donna e a girare per le strade coperti dall’onta di aver tradito la gente del loro stesso quartiere. Sono rimasto bloccato a Bulaq per circa cinque ore, mentre il fracasso delle granate lacrimogene e dei proiettili si era fatto monotono. I rumori si calmarono leggermente alla notizia del coprifuoco e con l’arrivo dei primi carri armati. Uscito da Bulaq, mi diressi verso il centro e poi verso piazza Tahrir. Per la prima volta l’aria del Cairo aveva un sapore diverso. I carri armati dell’esercito iniziarono a dispiegarsi al palazzo della radio e della tv egiziana, cercando di farsi strada verso Piazza Tahrir, in cui erano rimasti gli ultimi uomini delle forze di polizia che sparavano ancora contro i manifestanti proiettili, metallici di gomma, e lacrimogeni. I negozi delle vie secondarie erano quasi tutti chiusi e sui volti della gente c’era la sorpresa e un sorriso felice. Le strade del Cairo erano per la prima volta libere, appartenevano a tutti. Il cellulare non prendeva più, nessun telefono squillava, nessuno chiamava, ma tutti correvano, fraternizzavano e si sostenevano. Si allungavano mani con bottiglie di aceto, bibite gassate e fette di cipolla. Un momento storicoFaccio ancora fatica a mettere ordine nelle vicende successive. Mi sembra che tutto sia successo in un giorno soltanto. I discorsi del Presidente sono sempre uguali, si susseguono notizie di dimissioni e nuovi incarichi, sempre uguali: facce che spariscono per fare posto ad altre maschere delle stesse persone, folle di manifestanti che affluiscono a Piazza Tahrir e in altri governatorati. Il regime sta giocando le sue ultime carte. Il Presidente si affaccia e per la prima volta: lo sentiamo abbandonare la sua superbia e riferirsi a se stesso dicendo «Io» invece di «Noi».
Si tratta dello stesso Mubarak che qualche settimana fa, quando qualcuno dell’opposizione avevo chiesto un parere a proposito di progetti di riforma, aveva risposto «lasciateli divertire». Ora, seppur parli con un tono quasi supplichevole, continua a sostenere che «morirà su questa terra», cioè che non intende dimettersi. Ogni volta che tornerà in televisione l’ira della gente aumenterà, e si tornerà a manifestare.
Qualche ora dopo il primo discorso del Presidente, i suoi sostenitori e gli uomini delle forze dell’ordine hanno cercato di entrare nella piazza con la forza, attaccando i manifestanti in sella a cavalli, cammelli e muli. Non si tratta più di una battaglia politica: in gioco c’è la difesa della civiltà. L’immagine è chiara: siamo davanti a un regime dalla mentalità medievale, che governa in nome di un capotribù. La disobbedienza viene considerata una forma di maleducazione e i suoi sostenitori cavalcano per le strade della città cavalli e cammelli. Dall’altro lato ci sono invece i giovani del nuovo Egitto, esponenti di tutto l’arcobaleno politico, dai Fratelli Musulmani alla sinistra radicale, uniti da Internet e dai social network. Il cammello e il cavallo contro Internet e i cellulari, e in mezzo l’esercito egiziano, confuso, ma comunque insoddisfatto dei comportamenti del regime, senza tuttavia poter dissentire col suo capo supremo, il PresidenteI miei genitori si sono incontrati, si sono innamorati, si sono sposati e poi mi hanno dato alla luce. Sono nato, ho imparato a camminare, mi sono spuntati la barba e i baffi, mi sono laureato, i miei capelli hanno cominciato a cadere, mi sono sposato e in tutto ciò i capelli di Mubarak sono ancora neri!Il prodigio maggiore di Mubarak, secondo la propaganda del suo partito, è la “stabilità”. Sono stato testimone, come tanti altri scrittori e intellettuali, di come il regime abbia dato pieno sostegno a valori e idee antiche, e di come abbia esercitato la censura contro la creatività e le pubblicazioni originali, con la scusa della religione o della salvaguardia della sicurezza nazionale. Ero accanto agli amici che hanno perso il lavoro per le loro posizioni, ero accanto a Magdy el-Shafee quando il Governo ha censurato la prima graphic novel in arabo, Metro, per i suoi riferimenti alle figure del partito corrotto di MubarakLa corruzione del regime di Mubarak non si è limitata soltanto alla dittatura e all’economia, ma con l’aiuto della mostruosa macchina di propaganda che diffondeva decine di menzogne e di leggende ha colpito l’infrastruttura culturale e sociale egiziana. Quello che più stupisce è che adesso vediamo ripetere le stesse menzogne sui media europei, le ascoltiamo sulla bocca di politici di rilievo, come la cancelliera Merkel o Berlusconi, l’amico intimo di Mubarak. Quali sono queste menzogne?

L’Egitto, come altri paesi, deve rimanere sotto un regime dittatoriale per garantire che gli islamisti non arrivino al potere.
È il contrario: la dittatura è uno dei motivi alla base della diffusione dei movimenti terroristici e del ricorso alla violenza. Questo regime non è mai stato laico: sotto Nasser gli islamisti sono stati torturati nelle prigioni; Sadat poi li ha usati per sterminare i movimenti di sinistra e i gruppi liberali. Compiuta questa missione, li ha mandati in Afghanistan a combattere contro l’Unione Sovietica. Quando sono tornati li ha incarcerati, li ha torturati, senza avviare alcun tentativo di dialogo. Questo li ha portati ad allontanarsi dalle loro linee di pensiero e a fidarsi di pagliacci del calibro di Bin Laden o al-Zarqawi. L’esistenza di un sistema democratico è un diritto in qualsiasi società ed è l’unico modo perché si avvii un dialogo vero tra i diversi gruppi sociali. La democrazia autentica garantisce il processo di integrazione dei movimenti islamisti all’interno di uno stato civile e moderno. Trovando canali veri di partecipazione al dialogo sociale e politico nessuno avrà bisogno di farsi esplodere perché suo padre è stato ucciso sotto tortura o perché suo fratello è stato licenziato.
 
Il rapido passaggio da un sistema dittatoriale a uno democratico può portare al caos.
Ho sentito la Merkel ripetere questa favola. Mi ha stupito il fatto che fosse anche lo stesso pretesto usato da Mubarak per rifiutare le dimissioni immediate. In realtà quando il 28 gennaio la polizia ha abbandonato le posizioni e si è ritirata, in poche ore gli egiziani si sono organizzati e in ogni quartiere sono nati dei comitati popolari. Negli ultimi giorni abbiamo visto che il popolo egiziano è sceso per strada per salvaguardare le sue proprietà, per dirigere il traffico e per raccogliere la spazzatura, mentre Mubarak e il suo nuovo Primo Ministro non sono capaci di nominare un Governo. Abbiamo visto i musulmani fare da guardia alle chiese, non c’è stata alcuna molestia sessuale, abbiamo visto disoccupati fare la guardia a banche in cui si sono accumulate le fortune di uomini d’affari corrotti. Tutto questo è avvenuto perché gli egiziani rifiutano il vandalismo e il caos: sono un popolo attaccato e alle istituzioni. La sensibilità che ha mostrato la società egiziana è stata una sorpresa per tanti, me compreso, e ci ha mostrato che questa società è in grado di gestirsi senza bisogno della custodia di un vecchio generale o dei consigli dei leader politici europei.
La presenza di Mubarak rassicura Israele e porta avanti il processo di pace, garantendo quindi la stabilità in Medio Oriente.
La verità è che in più di due settimane di manifestazioni in tutte le strade e le piazze dell’Egitto non si è sentito neppure uno slogan religioso o ostile a un qualche paese del mondo. Il regime di Mubarak, che in pubblico dichiara di sostenere la pace, in realtà sosteneva le politiche e le idee dell’odio nei confronti dell’altro, per poi dipingersi come l’affidabile custode dei confini e della sicurezza del Paese. Il regime di Mubarak ha tutto l’interesse a mantenere insoluta la questione palestinese, perché si tratta di una carta che può usare con americani e europei. Il popolo egiziano, per le vite che ha pagato, aspira soltanto alla pace: nessuno mette in dubbio l’esigenza di trovare una soluzione alla causa palestinese basata sulla legittimità internazionaleIeri sera ha piovuto sui manifestanti di Piazza Tahrir. C’era un ragazzo che suonava la chitarra e cantava entusiasta in mezzo alla folla. Un altro pregava verso l’esterno della piazza. Una casalinga era seduta sul marciapiede e raccontava una storia ai suoi figli. Alcune ragazze si facevano le foto accanto ai carri armati. Un giovane medico curava le ferite di un manifestante colpito durante un attacco dei delinquenti di Mubarak. C’erano giovani che parlavano di creare un sito per documentare gli avvenimenti di Piazza Tahrir. C’era la festa di matrimonio di due ragazzi che hanno deciso di sposarsi in piazza, in mezzo ai manifestanti. C’era un prete che si preparava a celebrare la Messa per l’anima dei martiri della rivoluzione. C’erano alcuni artisti che dipingevano sul marciapiede. C’era un vecchio che camminava gridando: «Io sono il popolo. E il popolo vuole la caduta del regime».

Ma il Presidente rifiuta di dimettersi e i suoi capelli sono ancora neri e lucidi.
A te la scelta. Sostieni la rivoluzione.

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