FÙCINO. ACQUA, TERRA, INFANZIA di Roberto Carvelli
ArticoloTre (Daniela D’Angelo, 25 luglio 2018)
Fùcino. Il lago dell’infanzia perduta. Intervista a Roberto Carvelli
Che fine ha fatto il lago del Fùcino con tutti i suoi pesci? E che fine ha fatto la giovinezza con tutte le sue avventure? Nel suo ultimo libro “Fùcino. Acqua, terra, infanzia” (il Sirente), Roberto Carvelli ci accompagna nei territori della sua infanzia a Cerchio e parallelamente traccia la storia di questi luoghi (che furono anche di Silone) per raccontare un tempo inabissato, che ha lasciato posto ad altro, al suo superamento.
È un libro sulla ferita e sull’incanto dell’infanzia. La memoria chiama a raccolta episodi piccoli e personali, eppure significativi: i conflitti esistenziali e famigliari, le piccole scoperte, i vicini che passavano in visita, il paesaggio e la natura. L’autore evoca, indaga, rimuove, poi ripristina. Le commoventi fotografie in bianco e nero riportate in queste pagine rendono servizio a questo tentativo di testimonianza. Che si avvale anche di una documentata ricerca storica sui fatti che hanno riguardato la zona.
Viaggio nella memoria dunque, diremo meglio, attraversamento e scavo, dove le tensioni del passato trovano accomodamenti. Risposte che il bambino non sapeva ancora darsi e che l’adulto adesso cerca di farsi bastare.
Archiviate da un pezzo le intemperanze giovanili di Bebo e altri ribelli degli esordi, questo è un libro della maturità, senza più rivoluzioni. Il lago laddove ora vi è la piana è una dimensione a cui bisogna tornare per varcare un confine, segnare un passaggio. Dall’infanzia al Fùcino fino al matrimonio (ça va sans dire, in questi luoghi) il libro ripercorre un’esistenza intera o quasi, e cuce un raccordo tra la vita passata e quella nuova verso cui dunque bisogna tendere. Il resoconto è tutto volto alla conquista di un assetto conciliante, soddisfacente, definitivo. Per risolvere in ultimo che non è nella definitività, ma piuttosto nel mutamento – tanto dei sentimenti quanto dei luoghi di cui facciamo esperienza, comprese le case che abitiamo – che la vita dà prova del mistero della sua insondabilità. E se da un lato abbiamo imparato che la terra che calpestiamo cambia sempre almeno un poco dopo il nostro passo, dall’altro, in un mondo parallelo tanto indimostrabile quanto possibile, naturalmente solo per chi ha voglia di crederci, vivono ancora e per sempre il Fùcino con le sue acque intatte e con i suoi pesci. E con loro, tutte le altre nostre vite che via via nel tempo vi si sono perdute dentro.
DDA: La casa di villeggiatura a Cerchio, e la vita che vi si svolgeva dentro e attorno, i tuoi genitori giovani, tuo fratello e tu bambino, si sono dileguati per sempre, come le acque del lago – il Fucino. Il libro, che nelle pagine finali definisci appunto un memoir, è il tentativo di portare a galla la memoria dell’infanzia. Ma l’evocazione di un tempo e di un luogo perduti si spinge fino a diventare una specie di testamento, un addio, un saluto definitivo…
RC: Il libro è un resoconto. Un’opera narrativa in cui la materia bruciante della realtà diventa pretesto per la finzione del racconto. Il racconto è quello della ricercata pacificazione con il proprio passato. E l’infanzia, per quella strana combinazione di magia ricordata e vaghezza della memoria mista alla rimozione, è il luogo emotivo del racconto. Coincide per una strana assonanza al luogo geografico dello stesso racconto come condividendone un destino. Il non più lago Fùcino viene raccontato insieme alla non più infanzia di quella casa costruita da mio padre e poi venduta al termine di un decennio favoloso (in senso proprio). Del lago ho cercato tutto le storie: il suo prosciugamento iniziato in tempi romani e concluso nel tardo 800, il terremoto a cui assiste nel 1915 – pensate che ad Avezzano muore il 90% della popolazione per darvi l’idea delle grandezze –, le lotte contadine dopo la bonifica del lago. Per farlo ho passato mesi in biblioteca compensando vuoti. Ma non per questo il libro è un saggio: sono solo altre storie che intessono la mia storia personale.
DDA: Queste pagine parlano del rapporto con il padre, di quella conflittualità che accompagna la crescita e lo sviluppo personale. Ma si avverte il bisogno di una riconciliazione, di perdonare e di farsi perdonare. Sembra che senza questo passaggio sia impossibile procedere, andare veramente avanti.
RC: La parte più incandescente di tutto il processo di fusione che avviene nelle pagine del libro è proprio quella del rapporto col padre. Il Fùcino, come luogo geofisico e narrativo, diventa l’occasione per un ritorno nel luogo (fisico e non fisico) del padre. Cosa che con me fa Tommaso Ottonieri Pomilio con il suo, e che viene fatta anche cercando nel simbolo stesso dell’autorità paterna, di quello che simboleggia. Per rimanere alla mia storia personale, in terra di Fùcino cerco di riscoprire quanto l’assenza, l’incerta presenza e, infine, la corposa e felice – per quanto rara, episodica – presenza di mio padre abbia segnato il mio diventare adulto. Ed è una scoperta che ognuno può fare: i conti col passato tornano sempre – al di là della presenza – bisogna solo metterci mano. Aprirsi al ricordo, ai ricordi.
DDA: La campagna in cui è immersa la casa diventa lo scenario della tua formazione naturalistica, da qui probabilmente ha origine l’interesse che hai anche oggi per la natura e per il birdwatching. Tra pericolo e mistero, dalle pecore alle serpi, passando per lupi e orsi, ci vuoi parlare dell’incontro con il cuore selvaggio della Marsica? La modernizzazione, d’altro canto, ha dovuto fare i conti con l’arcaico e il magico. In che modo il territorio ha inglobato le spinte verso il progresso?
RC: Il Fùcino presenta questa strana combinazione di wilderness (ma dirò selvaggio per smarcarmi da categorie “turistiche” e accedere a vie più universali) e antropizzazione estrema. Estrema è la coltivazione intensa che dall’alto appare come una sorta di coperta intessuta con stracci di vari verdi e gialli a seconda delle stagioni e delle coltivazioni, intessuta con precisione geometrica tra canali e strade numerate. O plastiche e serre rilucenti. Il sistema di questa trapunta in tinta trova poi nelle parabole del Telespazio un’ulteriore cifra di ipermodernità. Da patate e carote – due IGP peculiari della Piana – si arriva a questi strani funghi pleurotus d’acciaio che puntano direttamente l’Universo. Sembra lo scenario di un Black Mirror o Les Revenants. Luogo ideale per distopie, immaginazioni di futuro o di passati non ancora compiuti – anche il mio forse. Poi, come per una magia dinamica, arrivano pesanti nubi basse e il lago visto dall’alto delle colline circostanti appare ancora lì. Così è successo anche con la mia infanzia? Forse sì, o spero che accadrà a chi mi leggerà. L’Abruzzo – per tornare al selvatico – è terra di incontri fortuiti con quel mondo parallelo delle fiabe: i lupi cattivi (così a leggere le cronache giornalistiche), gli orsi golosi distruttori (ma a vedere Masha è facile scegliere con chi stare anche nella narratività di un racconto per bimbi), le serpi che intontite dall’inizio della loro stagione visibile bambini di tre anni portano al collo nella festa di Cocullo ogni primo maggio. E le pecore – tante: una vera e propria pastorale marsicana come ho scritto – che punteggiano di bianco il paesaggio come l’unità di misura che fa da contrappunto agli spazi verdi e alle vie di tratturo. La mia vita infantile ha conosciuto, conservato e mai più dimenticato quest’incontro con il lato selvaggio. Nel libro prepotenti ritornano questi simboli e fanno di questa terra il luogo di una fiaba senza cappuccetti, pollicini e Mashe. Insomma, un ricordo al netto dell’Uomo.
DDA: Il culto mariano è particolarmente sentito in Abruzzo. Le donne marsicane, scrivi così, sono sospese tra stanzialità e nomadismo. Che nesso possiamo cogliere?
RC: La donna abruzzese, senza idolatrare, ha la forza per nulla remissiva di una presenza che segna la strada come le tante madonnine votive di cui il Principe Alessandro Torlonia, il prosciugatore, si serve per punteggiare il vecchio greto del lago. Per ingraziarsi il simbolo della pietà e della forza femminili. Dicevo forza per nulla remissiva delle signore di questi luoghi, abituate a gestire assenze (gli uomini nelle campagne o al pascolo) e presenze troppo inutilmente ingombranti degli uomini quando c’erano e delle circostanze meteorologiche spesso sfidanti. Eppure queste donne le ricordo con le conche o i cesti in testa capaci di andare a mani e contenitori pieni e tornare a mani e contenitori pieni, prima di qualsiasi mezzo di trasporto, fosse pure la ricchezza – anni fa lo era – di un asino. Questo per me è un autentico simbolo religioso.
DDA: Non si può parlare di questi luoghi senza ricordare Ignanzio Silone. Che importanza ha avuto per te questo scrittore?
RC: Silone è scrittore che non ho potuto amare nella confezione scolastica e ipercattolica del mio liceo religioso. Troppo irreggimentato nella clericalità per piacere al suo stesso autore figuriamoci al suo lettore implicito: un rivoluzionario dal cuore colmo di amore per il prossimo, per gli ultimi, leale e schietto. Silone aveva finito per odiare ogni Chiesa, anche quelle politiche dell’URSS. Ma il Silone che ritrovo oggi – fuori da quel packaging – mi sembra enorme. La cesura perfetta dell’anima liberale, socialista e cristiana (scrivo cristiana e non cattolica, per scelta) di questo paese. Nella sua opera, e principalmente nella grandezza della letteratura dell’esilio rappresentata da Fontamara, trova senso la forza della nostra umile gente italiana delle aree meno fortunate sparse nello stivale dal Nord al Sud, alle Isole, gente che ha saputo crescere. Parlo di quella gente che però, pur crescendo, non dimentica il dolore dell’evoluzione (e la fatica dell’evoluzionismo). E oggi, oggi, proprio oggi andrebbe ricordato a chi crede che evolvere significa cancellare quella fatica e quel dolore, nella rimozione di una negazione verso chi quella evoluzione sta compiendo con la sola sfortuna di un ritardo nella linea del tempo.