| Minima & Moralia | Lunedì, 27 febbraio 2012 | Giorgio Vasta |
Questo è l’incipit di un racconto di Hassan Blasim, autore iracheno contemporaneo, tradotto da Barbara Teresi per il libro «Il matto di piazza della Libertà» (edizioni Il Sirente). Hassan Blasim, nato a Baghdad nel 1973, è poeta, regista, blogger e autore di racconti brevi. Nel 2004, in seguito a problemi scaturiti dalla realizzazione del film «Wounded Camera», ha dovuto lasciare l’Iraq e si è rifugiato in Finlandia, dove vive tuttora.
Tratto da: Hassan Blasim, «Il matto di piazza della Libertà», Il Sirente, Roma 2012
Questa storia si è svolta al buio. Se potessi scriverla ancora una volta, riporterei soltanto le grida di terrore e gli altri oscuri suoni che accompagnarono la carneficina. In effetti gran parte della storia andrebbe bene per un programma radiofonico sperimentale.
Di certo la maggior parte dei lettori la leggerà come una mera invenzione di un autore di racconti, o forse come una modesta metafora dell’orrore. Ma io trovo che non ci sia bisogno di giurare per indurvi a credere nella stranezza di questo mondo.
Ciò di cui ho bisogno è scrivere questa storia, macchia di merda su una camicia da notte. O forse una macchia a forma di fiore selvatico.
Nell’estate del 2000 lavoravo in un bar nel centro di Istanbul. Il mio inglese stentato mi era d’aiuto nel lavoro, dal momento che i clienti del bar erano turisti, per lo più tedeschi che parlavano anche loro un inglese buffo. Io ero, allora, in fuga dall’inferno degli anni dell’embargo. Non per paura della fame, né del dittatore. Ero, piuttosto, in fuga da me stesso. E da altri mostri. In quegli anni spietati, la paura dell’ignoto era aumentata a dismisura, estirpando dagli esseri umani il senso di appartenenza alla realtà consueta, e riportando in superficie una bestialità che fino ad allora era rimasta sepolta sotto i semplici bisogni quotidiani degli uomini. In quegli anni una crudeltà abietta e animalesca, generata dalla paura di morire di fame, aveva preso il sopravvento. Io sentivo che stavo correndo il rischio di trasformarmi in un topo.
Grazie a quel lavoro, avevo messo da parte dei soldi e li avevo usati per pagare i trafficanti che dall’Oriente portano bestiame umano nei campi dell’Occidente. Per essere contrabbandati c’erano vari modi, che differivano nel prezzo: si poteva viaggiare in aereo con un passaporto falso, cosa che però costava tantissimo, o camminare insieme al contrabbandiere attraverso foreste e fiumi di confine, e questo era il modo più economico; c’era la via del mare, e quella dei camion. Io avevo pensato a quest’ultima, malgrado mi preoccupasse la storia di quell’apparecchio che la polizia usa per misurare l’anidride carbonica dentro i camion e individuare così il respiro di chi si nasconde all’interno. Ma non fu quell’apparecchio a farmi desistere dall’idea del viaggio in camion, bensì la storia di Alì l’afghano e del massacro sul camion per Berlino.
L’afghano era un pozzo magico di storie di contrabbandi. Da dieci anni viveva a Istanbul da clandestino, e per vivere produceva e vendeva droga, per poi sperperare tutti i suoi risparmi in prostitute russe e mazzette alla polizia.
Qualcuno si è preso gioco di me perché ho creduto alla storia del camion per Berlino. Ma io di fatto ho più d’un motivo per credere a questo genere di storie. Il mondo è, secondo me, estremamente fragile, spaventoso e disumano, e gli basta una lieve scrollata per far fuoriuscire le sue atrocità e i suoi canini primitivi.
Senz’altro voi conoscete già molte simili tragiche storie riguardo all’emigrazione e ai suoi orrori, grazie ai mass media che puntano i riflettori soprattutto sugli annegamenti dei migranti. Trovo che agli occhi del pubblico questi annegamenti di massa appaiano come un’avvincente scena da film, una sorta di nuovo Titanic. I media non trasmettono mai, ad esempio, certe notizie di commedia nera, così come a voi non giungono mai le notizie su ciò che gli eserciti della democratica Europa fanno quando di notte, in una gigantesca foresta, catturano un gruppo di esseri umani terrorizzati e inzuppati di pioggia, fame e freddo. Ho visto con i miei occhi dei soldati bulgari colpire un giovane pachistano con una pala fino a fargli perdere conoscenza. Poi ci chiesero, in quel freddo da gelare le ossa, di scendere in un fiume semicongelato. Tutto questo accadde prima che ci consegnassero all’esercito turco.
Alì l’afghano sostiene che erano trentacinque giovani iracheni. Giovani sognatori che avevano preso accordi con un trafficante turco per essere trasportati su un camion chiuso che esportava frutta in scatola viaggiando da Istanbul a Berlino. L’accordo era più o meno questo: ciascuno avrebbe pagato quattromila dollari per un viaggio di soli sette giorni. Il camion avrebbe viaggiato di notte, mentre di giorno avrebbe sostato in piccole città di confine. Chiunque avesse voluto andare di corpo, avrebbe dovuto farlo durante il giorno, mentre di notte era consentito pisciare sul camion dentro bottiglie di plastica vuote. Era vietato portare in viaggio telefoni cellulari. Tutti quanti erano tenuti a restare in silenzio e trattenere il respiro durante le soste ai valichi di frontiera o ai semafori e a far sì che non ci fossero risse, nel modo più assoluto.
Ma quel che veramente preoccupava il gruppo del camion per Berlino era quella storia pubblicata qualche giorno prima dai giornali turchi riguardo a un gruppo di afghani che avevano pagato somme ingenti a un trafficante iraniano per essere trasportati in Grecia all’interno di un camion. Il camion viaggiò per un’intera notte, e prima dello spuntar del sole si fermò. Il trafficante ordinò loro di scendere in silenzio, e disse che erano giunti in una cittadina greca di confine. Gli afghani scesero stringendo le loro valigie. Provando un misto di paura e di gioia, si misero a sedere sotto un gigantesco albero. Il contrabbandiere aveva detto che si trovavano in un boschetto greco e che tutto ciò che avrebbero dovuto fare era aspettare fino al mattino e – quando la polizia greca sarebbe giunta sul posto – presentare immediatamente la richiesta d’asilo.
Al mattino i giornali pubblicarono una fotografia degli afghani seduti in mezzo a un parco pubblico al centro di Istanbul. Il camion era andato per tutta la notte in giro per le strade della città, senza neppure uscire dalla periferia. E come in tutte le storie di raggiri e di truffe, il contrabbandiere e il suo camion sparirono, mentre gli afghani furono sbattuti in prigione in attesa del rimpatrio.
Il gruppo del camion per Berlino, però, non aveva davanti a sé altra scelta, se non tentare l’avventura. Aver paura di quelle storie di truffe equivaleva a una paralisi, significava perdere la speranza e fare ritorno in un Paese oppresso dalla fame e dall’ingiustizia…