| La Stampa | Lunedì 19 novembre 2007 | Maurizio Molinari |
I giganti energetici di Pechino e Mosca pongono sfide molto diverse ma ugualmente serie ai concorrenti d’Occidente.
È una delle barzellette più di moda ad Alma Aty, in Kazakhstan, a svelare cosa sta avvenendo sul mercato del greggio: «In città c’è una piccola delegazione cinese, sono diecimila». A raccontare l’aneddoto è Evan Feigenbaum, braccio destro del Segretario di Stato Condoleezza Rice sull’Asia Centrale e veterano delle guerre commerciali per il controllo delle risorse energetiche. Feigenbaum racconta la barzelletta al «Council on Foreign Relations» perché la ritiene veritiera: «Dal Mar Caspio all’Estremo Oriente i cinesi sono all’offensiva, costruiscono, acquistano, esplorano, investono e spendono una grande quantità di danaro e di risorse umane». Lo slancio della Repubblica popolare sul mercato energetico nasce dalla necessità di importare la metà del fabbisogno nazionale ed è riassunto dai nomi di tre giganti: China National Petroleum Corporation (Cnpc), China National Offshore Oil Corporation (Cnooc) e Sinopec.
«Hanno ruoli e compiti diversi – spiega Edward Morse, analista di greggio di fama mondiale, in forza a Lehman Brothers – perché Cnpc è il gigante pubblico maggior produttore di carburante e Cnooc esplora i giacimenti off-shore in Cina mentre Sinopec va aggressivamente alla ricerca di nuovi mercati all’estero». Sijin Chang è l’analista di Eurasia Group che segue 24 ore su 24 le mosse dei tre colossi e assicura che «fanno una dura concorrenza alle grandi compagnie occidentali» per due ragioni. Primo: «Dispongono di soldi pubblici in grande quantità e non lesinano a spenderli». Secondo: «Su indicazione del governo sfruttano le aree di crisi per insediarsi». Gli esempi più lampanti vengono dal Sudan, dove Sinopec ha quasi un monopolio sulle estrazioni, e il Turkmenistan, dove sempre Sinopec ha siglato un contratto trentennale per la realizzazione di un mega oleodotto destinato a portare gas e carburante verso Oriente. «Pechino gioca duro nella grande partita degli oleodotti – assicura Steve LeVine, giornalista del Wall Street Journal autore del libro «The Oil and the Glory» – punta a siglare in Kazakhstan un contratto simile a quello turkmeno, per alimentarsi via terra senza dover passare per la Russia o per il Golfo Persico».
Ma non è tutto. Robin West, presidente di PFC Energy Inc. e fra i più ascoltati esperti di energia in America, spiega che «la forza dei cinesi è nel fatto che hanno manager aggressivi, gestiscono le aziende pubbliche come se fossero private e sono in grado di sfruttare a loro vantaggio le regole della concorrenza meglio di molte compagnie occidentali». Proprio a questo metodo «aggressivo e competitivo» West attribuisce il successo di PetroChina, di proprietà statale, che toccando un valore di mercato di un trilione di dollari ha scavalcato la rivale americana ExxonMobil – ferma a 488 miliardi di dollari – diventando questo mese la prima azienda del mondo per capitale azionario. «La sfida cinese alle Cinque Sorelle – aggiunge West riferendosi alle maggiori compagnie petrolifere occidentali – è molto simile a quelle che si preparano in India e Brasile, giocano alle nostre stesse regole ed hanno ottimi manager ma con più denaro sul piatto».
Se questo avviene è anche perché le Cinque Sorelle – ExxonMobil, Royal Dutch Shell, British Petroleum, Chevron e ConocoPhillips – gestiscono diversamente i profitti: un recente studio del Baker Institute della Rice University attesta che spendono sempre di meno in esplorazioni, cedendo terreno ai rivali di altre nazioni che «sono dunque meglio posizionati per lo sfruttamento dei nuovi giacimenti». I monopoli non-occidentali «rappresentano i titolari dei primi dieci giacimenti del mondo mentre ExxonMobil, BP, Chevron, Royal Dutch e Shell sono rispettivamente al 14°, 17°, 19° e 25° posto» spiega Amy Myers Jaffe, autore del rapporto del Baker Institute. «Se le Cinque Sorelle spendono meno per l’esplorazione – osserva Morse – è perché per loro oramai la finanza conta più dell’estrazione e gli azionisti più dei trivellatori, destinano le risorse ad operazioni di mercato tese a rafforzare profitti più che a rischiare capitali in nuove aree».
Quando si dice «monopoli» Morse, West, LeVine e Jaffe pensano subito alla Russia di Vladimir Putin. «La sfida russa è diversa da quella cinese perché non è di mercato bensì si basa sulla gestione quasi monopolistica delle immense risorse nazionali» spiega West, secondo cui «l’unica maniera per rispondere è venire a patti, cedere quote di mercato internazionale per averne in cambio dentro la Russia». Alexander Kliment è l’analista russo di punta di Eurasia Group e legge così la mappa energetica: «Rosneft è probabilmente la più grande azienda petrolifera del mondo così come Gazprom ha pochi rivali sul gas, entrambe sono emanazione del potere politico e tengono sotto controllo le risorse nazionali». Mentre l’asso nella manica del Cremlino «è Lukoil»: sulla carta privata ma in realtà sotto il controllo di Putin, ha il compito di «esplorare nuovi mercati» insediandosi «lì dove l’Occidente non vuole o non può», a cominciare dall’Iran di Mahmud Ahmadinejad.
«Ma chi dovesse pensare che Lukoil si fermerà alle zone di crisi sbaglia – aggiunge Carter Page, responsabile dell’Energia per Merrill Lynch – perché la loro ambizione è portare la concorrenza sui mercati nordamericano ed europeo, come già sta avvenendo». Basta contare i distributori Lukoil a New York per accorgersene. Se l’aggressività di cinesi e russi è il tema del giorno per gli analisti petroliferi americani è anche vero che nessuno vede in questi nuovi giganti dei reali concorrenti sul piano della tecnologia. «Su innovazione e sviluppo né i russi né i cinesi sono in grado di sfidare le Cinque Sorelle – concordano Morse e West – la tecnologia resta il loro tallone d’Achille». Quali che siano le prossime puntate della sfida energetica Carter Page ha pochi dubbi su quanto sta avvenendo: «È l’energia il vero gioco del potere mondiale».