| Le Monde Diplomatique | Giugno 2007 | Régis Genté (*) |
Il vertice di metà maggio tra l’Unione europea e la Russia si è arenato in particolare sulla questione della cooperazione energetica: l’Unione, che importa dalla Russia il quarto del proprio consumo di petrolio e di gas, si preoccupa dell’accresciuto potere di Mosca in questo campo. L’accordo concluso, il 12 maggio, dal presidente russo Vladimir Putin con i suoi omologhi turkmeno e kazako, conferma un rovesciamento di tendenza: a lungo messo sulla difensiva dalla politica di aggiramento degli oleodotti e dei gasdotti, imposta dalle grandi potenze, Mosca ha ripreso l’offensiva.
Il nuovo «Grande Gioco» ha raggiunto il culmine. Con in più, questa volta, al centro del gioco, il petrolio e il gas. Ma la domanda di idrocarburi non spiega da sola la battaglia tra le grandi potenze che intendono impossessarsi dei giacimenti delle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale e del Caucaso, sfuggite al dominio di Mosca con il crollo dell’Urss nel 1991. L’oro nero e l’oro grigio sono anche lo strumento di una lotta di influenza in vista del controllo del centro del continente eurasiatico. Per interposte major petrolifere, gli oleodotti sono le lunghe corde che consentono alle grandi potenze di ancorare al proprio sistema geostrategico i nuovi otto stati indipendenti (Nei) della regione (1). Nel XIX secolo, il «Grande Gioco», un’espressione diventata leggendaria con Kim, il romanzo di Rudyard Kipling, alludeva alla lotta d’influenza tra grandi potenze, in molti aspetti simile a quella odierna. All’epoca, la posta in gioco erano le cosiddette «Indie», il gioiello della corona britannica ambito dalla Russia imperiale (2). La lotta si protrasse per un secolo e si concluse nel 1907, quando Londra e San Pietroburgo trovarono un accordo per la suddivisione delle loro zone d’influenza, con la creazione di uno stato tampone tra di loro, l’Afghanistan (3). Questo accordo ha retto fino al 1991. Oggi, sebbene siano cambiati i metodi e le idee che guidano le grandi potenze, e i protagonisti non siano gli stessi, l’obiettivo ultimo permane. Si tratta di colonizzare, in un modo o nell’altro, l’Asia centrale per neutralizzarsi a vicenda.
Certo il gas e il petrolio sono ricercati in quanto tali, ma anche come strumento di influenza, spiega Muratbek Imanaliev, un ex diplomatico kirghizo (e in passato sovietico), che presiede l’Institute for Public Policy a Bichtek (Kirghizistan). Subito dopo il crollo dell’Urss, i Nei vedono nel petrolio un mezzo per rimpolpare il bilancio e rafforzare l’indipendenza nei confronti di Mosca. Alla fine degli anni 80, l’impresa americana Chevron mette gli occhi sul giacimento di Tenguiz, tra i più grandi del mondo, a ovest del Kazakistan. La Chevron ne acquista il 50% nel 1993. Sull’altra riva del Mar Caspio, il presidente azero Gueidar Aliev firma, nel 1994, il «contratto del secolo» con società petrolifere straniere, per lo sfruttamento del campo Azeri-Chirag-Guneshli. La Russia è furibonda: il petrolio del Caspio le sfugge. Essa oppone a Baku la mancanza di statuto giuridico del mar Caspio, di cui non si sa se sia un mare o un lago. Mosca si era illusa che le cose sarebbero andate meglio con Aliev piuttosto che con il suo predecessore, il primo presidente dell’Azerbaigian indipendente, il nazionalista anti-russo Albullfaz Eltchibey, rovesciato da un golpe nel giugno 1993, pochi giorni prima della firma di importanti contratti con alcune major anglosassoni. Fine conoscitore dei meccanismi del sistema sovietico, Gueidar Aliev, ex generale del Kgb ed ex membro del Politburo, tratta in segreto con i petrolieri russi per trovare un terreno di accordo con Mosca: Lukoil ottiene il 10% del consorzio Azeri-Chirag-Guneshli.
È l’inizio della lotta tra Est e Ovest per impadronirsi dei giacimenti della regione. Negli anni ’90, per giustificare la penetrazione nel bacino del mar Caspio, gli Stati uniti gonfiano le stime delle riserve di idrocarburi di quest’area. Parlano di 243 miliardi di barili di petrolio. Poco meno dell’Arabia saudita! Oggi si valutano ragionevolmente queste riserve a circa 50 miliardi di barili di petrolio e 9,1 trilioni di metri cubi di gas, ossia dal 4 al 5% delle riserve mondiali. Se gli Stati uniti si sono serviti di questo grosso bluff, è perché «essi volevano ad ogni costo costruire il Btc (l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan).
Hanno provato di tutto… per tentare di impedire l’estensione dell’influenza russa, di ostacolarla. Non so quanto sapessero di esagerare», dice Steve Levine, giornalista americano specialista di questi problemi fin dai primi anni ’90 (4). Questo gioco d’influenza s’imballa. Approfittando della «guerra contro il terrorismo» in Afghanistan dopo gli attentati dell’11 settembre, i militari americani si insediano nella ex-Urss. Con la benedizione di una Russia indebolita. Washington insedia le sue basi nel Kirghizistan e nell’Uzbekistan, promettendo di lasciare questi paesi appena sarebbe stata sradicata la cancrena islamista. «Bush si è servito di questo impegno militare massiccio nell’Asia centrale per suggellare la vittoria della Guerra fredda contro la Russia, arginare l’influenza cinese e mantenere il nodo scorsoio intorno all’Iran», dice Lutz Kleveman, ex corrispondente di guerra (5). Inoltre Washington svolge un ruolo determinante nelle rivoluzioni colorate in Georgia (nel 2003), in Ucraina (2004) e nel Kirghizistan (2005) che sono altrettanti pesanti scacchi per Mosca (6). Sconvolti da questi rovesciamenti di potere in serie, alcuni autocrati della regione voltano le spalle all’America e si riavvicinano alle Russia o alla Cina. Infatti il gioco si è complicato negli ultimi anni man mano che Pechino si intrometteva negli affari dell’Asia centrale e che l’Europa, in seguito alla guerra del gas tra Russia e Ucraina del gennaio 2006, accelerava i suoi progetti di captazione dell’oro grigio caspico. Petrolio, sicurezza, lotta d’influenza e battaglie ideologiche: bisogna puntare su tutti i fronti per cavarsela in questo «Grande Gioco». Inizialmente, la Russia è chiaramente in vantaggio in questo braccio di ferro: nel 1991, controlla tutti gli oleodotti che consentono ai Nei di trasportare i loro idrocarburi. Ma gli apparatchiki diventati presidenti si sforzano di non mettere tutte le loro uova nel paniere russo. Dopo la caduta dell’Urss, vengono costruiti una mezza dozzina di oleodotti che non attraversano il territorio del grande fratello: Mosca perde così parte del suo peso politico ed economico. Un tempo sconvolta dalla presenza militare americana e dalla serie di «rivoluzioni colorate», Mosca si rafforza nei paesi vicini L’esempio del Turkmenistan è emblematico delle relazioni della Russia con i territori del suo antico dominio: dei 50 miliardi di metri cubi di gas prodotti nel 2006 nel Turkmenistan, 40 sono stati venduti alla Russia. Scelta obbligata. A parte un piccolo gasdotto inaugurato nel 1997, che lo collega all’Iran, il Turkmenistan dispone solo del Sac-4, un oleodotto che arriva in Russia. Una catena vera e propria.
E, nell’aprile 2003, il presidente russo Vladimir Putin è in grado di costringere il suo omologo turkmeno Saparmurad Niazov (scomparso alla fine del 2006) a firmare un contratto di 25 anni per 80 miliardi di metri cubi all’anno, venduti al prezzo ridicolo di 44 dollari/1000 m3. Ben presto Achkhabad cerca di rimettere in questione queste condizioni e blocca le consegne. Nell’inverno 2005 Mosca si rassegna a pagare 65 dollari/1000 m3 perché il gas turkmeno è indispensabile in particolare per rifornire a basso prezzo la popolazione russa. Nel settembre 2006, Gazprom va oltre e firma un contratto con Achkhabad impegnandosi, per il periodo 2007-2009, a pagare 100 dollari/1000 m3. Questo perché, cinque mesi prima, in aprile, il dittatore scomparso aveva firmato con il presidente cinese Hu Jintao un documento che impegnava il Turkmenistan a fornire alla Cina, per una durata di trent’anni, 30 miliardi di metri cubi di gas naturale ogni anno, a partire dal 2009, e a costruire un gasdotto lungo 2000 chilometri. Questo spiega probabilmente perché Gazprom ha dovuto alzare le sue tariffe. Forse Achkhabad vuole ancora alzare il prezzo? Dopo la sua prima visita ufficiale a Mosca in veste di presidente, Gurbanguly Berdymukhammedov invita Chevron a partecipare allo sviluppo del settore energetico turkmeno. Mai il suo predecessore aveva osato fare simile proposta a una major internazionale. Peraltro il presidente non respinge le proposte europee riguardanti il corridoio transcaspico. E’ possibile che minacci di far entrare gli occidentali nel suo gioco per spingere Gazprom ad accettare un prezzo più alto – infatti all’Europa chiede più di 250 dollari/1000 m3. Eppure Putin aveva proposto di restaurare il SAC-4 e di costruire un altro gasdotto che collegasse i due paesi. «La Russia vuole mostrare ai turkmeni che è pronta a fare molto per loro. Mosca spera di dissuaderli dal trattare con i cinesi e gli occidentali», osserva il giornalista russo Arkady Dubnov. «La battaglia che Mosca deve condurre contro il Turkmenistan dimostra che la Russia non è più onnipotente nelle ex repubbliche sovietiche e che ciò che prevale oggi è il pragmatismo economico di Putin e della sua cerchia», conclude questo esperto della Comunità degli Stati indipendenti (Cei). Il 12 maggio scorso durante una visita di una settimana in Asia Centrale, Vladimir Putin ha firmato con i suoi omologhi turkmeno e kazaco un accordo per l’ammodernamento del gasdotto Cac-4 e la costruzione di un altro tubo, destinati a trasportare il gas del Turkmenistan in Russia. È in gran fretta che il presidente russo è arrivato a Turkmenbachi per strappare questo accordo, proprio mentre un analogo vertice concorrente era organizzato nello stesso periodo a Cracovia, in Polonia. Là svariati paesi situati ai margini della Russia speravano di lanciare oleodotti ostili. Il presidente kazaco ha perfino dovuto rinunciare a recarvisi per accogliere Putin. Come è riuscita la Russia a raggiungere i propri fini? Essa sembra avere argomenti che ne fanno ancora e senza dubbio per un lungo periodo, la più potente delle grandi potenze in Asia centrale. Pechino e Bruxelles hanno di che preoccuparsi per i per i loro progetti di approvvigionamento in Asia centrale.
Il metodo russo ha l’inconveniente di essere spesso brutale. Per questo, nel 2005, la crisi del gas tra Mosca e Kiev è stata sofferta dagli europei (7). Lo spettro dell’interruzione delle forniture aleggiava sul vecchio continente che importa un quarto del suo gas dalla Russia.
Tuttavia, sdrammatizza Jérôme Guillet, autore di uno studio sulle guerre del gas del 2006, queste crisi sono «lo specchio delle lotte che si tramano nelle quinte tra fazioni potenti all’interno del Cremlino o in Ucraina, più che l’effetto di un uso deliberato dell’arma energetica» (8).
Primo produttore mondiale di gas e secondo di petrolio, la Russia ha ritrovato la tranquillità finanziaria e prende iniziative strategiche.
Il 15 marzo scorso, ha firmato un accordo con la Bulgaria e la Grecia per la costruzione dell’oleodotto Burgas-Alexandroupoli (Bap). Un vero concorrente per il Btc e, meglio ancora, il primo che lo stato russo controlli sul territorio europeo. Parimenti, da alcuni mesi, il grezzo scorre lungo i 1.760 chilometri del Btc come il gas nel Baku-Tbilissi-Erzurum (Bte). L’arteria vitale dell’influenza occidentale nella ex-Urss funziona e produce i primi effetti politici. Da quest’anno, la Georgia sembra dipendere un po’ meno dal gas russo, mentre un anno fa, non poteva importarne altro. Gli aumenti clamorosi imposti dalla Russia – in due anni, il gas è passato da 55 a 230 dollari/1000 m3. – hanno colpito l’economia georgiana meno di quanto Mosca si aspettasse. Le quantità fornite dal Bte a titolo di royalty, e dalla Turchia, che cede a prezzo di affezione la parte di gas che le spetta per questo gasdotto, hanno permesso alla Georgia di comporre un prezzo medio accettabile (9). Peggio ancora per Mosca: il tentativo di imporre all’Azerbaigian un aumento dei prezzi nella stessa misura, nella speranza che colpisca di rimando le forniture destinate a T’bilisi, ha fortemente irritato il presidente Ilham Aliev. «Questo prova che il Btc (come il Bte) rappresenta senza dubbio la più grande vittoria americana in politica internazionale negli ultimi quindici anni. Un successo in fatto di “containment” della Russia e di sostegno all’indipendenza delle repubbliche caucasiche», sostiene Steve Levine. Questi oleodotti offrono agli Stati uniti e all’Europa la possibilità di lanciare due progetti per diversificare le loro fonti di approvvigionamento e attrarre nella loro cerchia politica i Nei della regione. Il primo, il Kazakhstan Caspian Transportation System (Kcts), destinato a convogliare il petrolio del giacimento di Kachagan, il più grande scoperto nel mondo negli ultimi trent’anni. La produzione deve iniziare alla fine del 2010, e gli azionisti del consorzio incaricato dello sfruttamento di questo giacimento, composto da grandi majors occidentali (10), si propongono di trasportare da 1,2 a 1,5 milioni di barili al giorno lungo un itinerario sud-ovest che attraverserà il mar Caspio.
Impossibile far passare l’oleodotto sotto il mare a causa dell’opposizione dei russi e degli iraniani: una flotta di petroliere farà la spola tra il Kazakistan e l’Azerbaigian, dove un nuovo terminal petrolifero collegherà il «sistema» al Btc. Questo, grazie ad alcune stazioni di pompaggio supplementari e all’uso di prodotti destinati a dinamizzare il passaggio dell’olio nelle tubature, dovrebbe avere un aumento della capacità da 1 a 1,8 milioni di barili al giorno. Il secondo progetto riguarda l’«oro grigio» ed è per ora appena abbozzato: si tratta del «corridoio transcaspico», destinato a rifornire l’Europa di gas kazako e turkmeno. «Parliamo di “corridoio” e non di gasdotto – precisa Faouzi Bensara, consigliere per l’energia alla Commissione europea – Proponiamo di avviare una riflessione su soluzioni tecnologiche alternative, come incoraggiare investimenti per la produzione di gas naturale liquefatto nel Turkmenistan, ad esempio, il quale potrebbe in seguito essere trasportato via nave fino a Baku». L’Unione europea non vuole essere protagonista del «grande gioco», precisa questo alto funzionario: «L’Ue è motivata solo dal suo bisogno. Presto ci occorreranno da 120 a 150 miliardi di metri cubi di gas all’anno.
Il nostro obiettivo è trovare questi volumi supplementari e diversificare le nostre fonti di approvvigionamento. Nient’altro. Individueremo soluzioni che saranno complementari a quelle che già esistono».
In compenso, un altro grande pipeline strategico promosso da Washington ha scarse possibilità di attuazione: si tratta del Tapi (Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India), il famoso gasdotto che gli Stati uniti, con la società petrolifera americana Unocal, si ripromettevano di costruire con i taliban nella seconda metà degli anni ’90. «Questo progetto comporta troppi inconvenienti, riguardanti la sicurezza, con il ritorno dei taliban in Afghanistan.
Peraltro, molti esperti ritengono che le riserve del Turkmenistan non siano state correttamente valutate», dice il professore Ajay Kumar Patnalk, specialista della Russia e dell’Asia centrale all’università Jawaharlal Nehru, a New Delhi.
Washington difendeva il Tapi, sia per isolare l’Iran, sia per indebolire la Russia nell’Asia centrale. Ormai, gli Stati uniti intendono integrare l’Afghanistan tra i paesi vicini e allo stesso tempo fornirgli risorse per riscaldare le sue popolazioni e rilanciare la sua economia, come pegno della sua stabilità. In questo senso, nel 2005, il dipartimento di stato americano ha riorganizzato la sua divisione Asia del Sud fondendola con la divisione Asia centrale, per agevolare le relazioni a tutti i livelli in quest’area designata come «Grande Asia centrale».
L’energia costituisce uno dei vettori essenziali delle relazioni interne nella regione. Sono quindi nati diversi progetti di centrali idroelettriche, ad esempio nel Tagikistan, destinati ad alimentare il Nord afghano. Ma l’idea nel suo insieme non va avanti. New Delhi in particolare, si sente lontana dall’Asia centrale ed esita a diventare parte integrante del Tapi. Sarebbe più attratta dal progetto di gasdotto Iran-Pakistan-India (Ipi), proposto da Tehran, sebbene l’Iran-Libya Sanctions Act (Ilsa) – mediante il quale Washington punisce ogni impresa che investa nel petrolio o il gas di questi paesi – vieta a New Delhi di fare il passo. «L’Iran è il grande perdente del nuovo “grande gioco”. Non solo gli oleodotti aggirano il suo territorio, ma nessuno può investire in Iran – rileva Mohammed Reza-Djalili, specialista iraniano delle relazioni internazionali dell’Asia centrale – . Ma sono proprio gli investimenti che mancano in questo paese. Le sue installazioni risalgono agli anni 1970, sicché l’Iran è costretto a importare il 40% della sua benzina. Non ha potuto esplorare la sua parte del mar Caspio e il suo enorme potenziale di gas solo parzialmente sfruttato». Peraltro è paradossale che il «Grande Gioco» escluda Tehran, mentre i produttori di idrocarburi nell’Asia centrale sognano una via meridionale: «Può essere meno caro e piuttosto semplice sul piano tecnico – spiega Arnaud Breuillac, direttore Total per l’Europa centrale e l’Asia continentale. Siamo in una logica di diversificazione delle nostre vie di esportazione. In questo quadro, abbbiamo preso un’opzione sulla via sud, tanto più che la regione di consumo più vicina al mar Caspio è il nord Iran». Questo spiega perché il riavvicinamento con l’Organizzazione di cooperazione di Shanghai (Ocs) (11) rappresenti in questo contesto, secondo Reza-Djalili, «un salvagente della politica iraniana nell’Asia centrale. Per questo tramite, Tehran può intrecciare legami con l’Asia, in particolare con la Cina, e rafforzarsi nel suo braccio di ferro con gli Stati uniti». Da parte sua, la Cina – spiega Thierry Kellner, specialista della Cina e dell’Asia centrale – persegue tre obiettivi in questo «Grande Gioco»: «La sua sicurezza, in particolare nella provincia turcofona dello Xinjiang, che fiancheggia l’Asia centrale; la cooperazione con i vicini, per impedire che un’altra grande potenza diventi troppo potente nello spazio centro-asiatico; infine l’approvvigionamento energetico». I numerosi acquisti di diritti di estrazione petrolifera di Pechino in Asia centrale, da alcuni anni, hanno fatto correre molto inchiostro. Nel dicembre 2005, la Cina inaugurava addirittura un oleodotto che collega Atassu, nel Kazakhstan, ad Alachanku, nello Xinjiang. «Il primo contratto petrolifero firmato da Pechino nell’Asia centrale risale al 1997 – rileva Kellner. La Cina lavora sul lungo termine. Ha saputo costruire basi solide nell’Asia centrale, e oggi questa politica paga».
Questa frenesia di acquisti non risponde soltanto alla richiesta di idrocarburi in un paese che ha una crescita annua del 10%. Secondo Kellner, traduce anche la sua visione geopolitica: «La Cina non vede le cose in termini di mercato, sebbene l’offerta e la richiesta di petrolio siano globalizzate. Per garantire la propria sicurezza energetica, si offre giacimenti e oleodotti che ne assicurano l’approvvigionamento diretto, ma che sono molto costosi. Mentre è essenziale che offerta e domanda si equilibrino a livello mondiale per mantenere i prezzi.
Nel suo stesso interesse, Pechino dovrebbe piuttosto contribuire a questo equilibrio senza necessariamente pensare ai propri approvvigionamenti diretti».
Le ex repubbliche sovietiche sfruttano la concorrenza tra le grandi potenze per consolidare la propria indipendenza economica e politica Investire nell’Asia centrale significa anche, per i cinesi, la possibilità di inserirsi negli affari della regione per contribuire alla sua sicurezza – così dicono. Pechino si impegna nell’Ocs per federare gli stati membri sui temi prediletti, come la lotta contro il terrorismo o la cooperazione economica ed energetica. Di più, l’organizzazione forma un blocco in grado di creare una forte solidarietà in caso di destabilizzazione della regione, o di accresciuta influenza degli Stati uniti che potrebbero arrivare al punto di minacciare i poteri costituiti. L’ondata di «rivoluzioni colorate» nello spazio ex-sovietico a partire dal 2003 ha così portato l’organizzazione a prendere una posizione più netta contro Washington. Nel luglio 2005, ad esempio, i suoi sei membri sostenevano Tashkent nella sua esigenza di chiudere la base militare aerea americana di Karshi-Khanabad, aperta nel quadro dell’operazione in Afghanistan. In effetti, non esiste più nessun Gl sul suolo uzbeko. In realtà, il «grande gioco» conviene alle repubbliche d’Asia centrale e del Caucaso che puntano sulla concorrenza tra le grandi potenze.
Diventano un po’ più indipendenti, in quanto possono dire di «no» a una di queste grandi potenze per rivolgersi a un’altra grande capitale.
Il che spesso significa soprattutto scegliere la propria dipendenza.
Mentre il Kazakistan apre la sua economia al mondo, l’Uzbekistan la chiude, e mentre la Georgia punta fino in fondo sulla carta americana, il Turkmenistan conserva una profonda sfiducia nei confronti di Washington.
Al di là di queste differenze, il «grande gioco» consente loro di essere meno costrette a seguire la strada imposta da una delle potenze dominanti. Ad esempio, se il discorso democratico dell’Occidente compromette gli interessi dei dirigenti centro-asiatici o caucasici, essi possono comunque voltargli le spalle, visto che né Pechino né Mosca sono molto rigorosi in materia. A dire il vero, nemmeno Washington o Bruxelles lo sono sistematicamente.
Gli imperativi strategici li portano spesso a relegare i diritti della persona in secondo piano, cosa che discredita notevolmente i valori cosiddetti «occidentali», nei quali i poteri della regione non vedono altro che un’arma ideologica. Dopo il 2003, per mettere a tacere le critiche, i loro dirigenti perfezionano, mese dopo mese, un discorso sul loro modo «orientale», di costruire la democrazia a casa propria. Nel frattempo, la corruzione regna in questo «grande gioco»: la manna del petrolio e del gas, anche se si tratta di ricchezze nazionali, sfugge in gran parte al controllo democratico degli abitanti di questi paesi.
note:
* Giornalista indipendente, Bishek (Kirghizistan)
(1) Si legga Vicken Cheterian, «Il “Grande Gioco” del petrolio in Transcaucasia» e «L’Asia centrale, retrovia americana», Le Monde diplomatique/il manifesto, rispettivamente ottobre 1997 e febbraio 2003.
(2) La teoria dello Heartland si deve al britannico Halford John Mackinder (1861-1947). Padre della geopolitica contemporanea, egli concepiva il pianeta come un insieme che gira intorno al continente eurasiatico, lo Heartland. Per dominare il mondo, occorre dominare questo «perno geografico del mondo». Mackinder riteneva che la Russia, padrona dell’Heartland a causa della sua posizione geografica, possedesse una superiorità strategica sulla Gran Bretagna, potenza marittima.
(3) Sul «grande gioco», cfr. Peter Hopkirk, The Great Game, On Secret Service in Central Asia, Oxford University Press, New York, 1991.
Per un breve riassunto, cfr. Boris Eisenbaum, Guerres en Asie centrale.
Luttes d’influences, pétrole, islamisme et mafias, 1850-2004, Grasset, Parigi, 2005.
(4) Egli pubblicherà il prossimo ottobre un libro intitolato The Oil and the Glory: The Pursuit of Empire and Fortune on the Caspian Sea, Random House, New York, 2007.
(5) «Oil and the New “Great Game”», The Nation, New York, 16 febbraio 2004.
(6) Si legga Vicken Cheterian, «Le strane rivoluzioni che avvengono all’Est», Le Monde diplomatique/il manifesto, ottobre 2005.
(7) Si legga Vicken Cheterian, «La rivoluzione arancione si scolora», Le Monde diplomatique/il manifesto, settembre 2006.
(8) Jérôme Guillet, «Gazprom, partenaire prévisibile: relire les crises énergétiques Russie-Ukraine et Russie-Belarus», Russie, NeiVisions, n° 18 Ifri, marzo 2007. Per una visione opposta, cfr. Christophe-Alexandre Paillard, «Gasprom: mode d’emploi pour un suicide énergétique», Russie, Nei Visions, n° 17 Ifri, marzo 2007.
(9) Cfr. «La Géorgie tente de réduire sa dépendance énergétique vis-à-vis de la Russie», Bulletin de l’industrie pétrolière, Parigi, 8 febbraio 2007.
(10) Gli azionisti di Agip Kco sono Eni (18,52%), ExxonMobil (18,52%); Shell (18,52%), ConocoPhillips (9,26%), la società nazionale petrolifera kazaka KazMunayGas (8,33%), Inpex (8,33%).
(11) L’Ocs è stata creata nel 1996 con la denominazione di «gruppo di Shanghai». Comprende oggi sei Stati membri (Cina, Kazakhstan, Kirghizistan, Uzbekistan, Russia, Tagikistan) e quattro osservatori (India, Iran, Mongolia, Pakistan). Questo ultimo statuto di osservatore è stato negato agli Stati uniti.