| La Stampa | Giovedì 4 giugno 2009 | Khaled Al Khamissi |
Un amico mi ha telefonato l’altro giorno dicendo che mentre stava guardando la tv ha sentito battere violentemente alla porta. «Chi e’? », chiede. «Polizia – fa una voce imperiosa – vogliamo i documenti di tutti quelli che abitano in questa casa». Siamo alla vigilia della visita di Obama e il mio amico vive vicino all’Universita’ del Cairo dove il Presidente parlera’. Eppure quell’appartamento non da’ sui luoghi cruciali, da li’ e’ impossibile compiere alcun attentato. La stessa cosa e’ accaduta ai suoi vicini. Mentre mi raccontavano quella storia, stavo guidando verso l’aeroporto del Cairo per andare a prendere un mio cugino. Appena arrivo, la polizia mi ferma e mi chiede la carta d’identita’. E’ la prima volta in vita mia, dopo tanti su e giu’ all’aeroporto. Non so perche’ gli agenti siano cosi’ ossessionati dal controllo dei documenti. Il giorno dopo, sono seduto al caffe’ in un vicolo stretto del centro. Le sedie arrivano fino in mezzo alla strada. Ordino un carcade’. Vicino a me, si discute animatamente sulla visita del Presidente americano. «Avete sentito? – chiede un tale – hanno arrestato duecento studenti dell’Universita’ teologica di Al Azhar. Quasi tutti dell’Asia centrale o russi. Nessuno sa dove li abbiano portati. E questo solo perche’ Obama visitera’ la loro facolta’». Qualcuno spiega che l’ospite ha aggiunto al suo programma una tappa in Arabia Saudita. Il vicino fa una battuta: «Suppongo che il governo egiziano abbia rifiutato di pagare i costi del viaggio, cosi’ l’Arabia Saudita come al solito ha dovuto mettere mano al portafoglio». Poi il discorso si fa serio. Uno dice che i sauditi da quando non ci sono piu’ i Bush, padre e figlio, si sentono orfani. «Riad e’ furiosa, perche’ Obama rivolge il suo messaggio al mondo islamico dal Cairo, cosi’ hanno fatto pressioni per avere il Presidente anche a casa loro». Un giovane che sta fumando il narghile’ dice di essere orgoglioso che Obama abbia scelto l’Egitto. «E’ chiaro – dice – che il nostro prestigio e’ alle stelle, siamo il piu’ importante paese musulmano». Un vecchio scuote la testa: «Essere il migliore o il peggiore dipende dalle condizioni reali e non dal giudizio degli altri. Siamo ormai un Paese fuori gara, come lo era la Cina all’inizio del secolo scorso. La visita non rimettera’ in moto la nostra sgangherata macchina: dobbiamo farlo da soli». Interviene una donna seduta al mio fianco che sta aspirando il fumo dalla pipa ad acqua: «Obama e’ soltanto un abile chirurgo plastico. Va in giro per migliorare il volto brutale dell’America nel mondo che Bush ha deturpato. Eh si’, e’ proprio un abile chirurgo plastico». Anche il cameriere, che ha appena portato una tazza di te’, vuole dire la sua: «Chiedo una sola cosa a Obama: che risolva una volta per tutte la crisi mediorientale. Se lo facesse diventerebbe il migliore Presidente nella storia americana. Peccato che non ho mai visto un politico mantenere la parola». Poi si lancia: «E’ vero che in campagna elettorale aveva promesso di fare a meno del petrolio nel giro di dieci anni? Se lo facesse Israele perderebbe la sua importanza strategica e l’intero Medio Oriente diventerebbe una scatola vuota. Non si sacrifichera’ mai piu’ un popolo per il petrolio, come e’ successo agli Iracheni. Ci lasceranno finalmente in pace». La ragazza che fuma il narghile’ sbotta: «Viva Obama il chirurgo plastico. Il piu’ bell’uomo d’America». Ma se il Presidente americano intende davvero inventare un’alternativa al petrolio, potrebbe trovare anche un’alternativa alla visita al Cairo. Magari parlando al mondo islamico dagli Stati Uniti. Intanto non cambierebbe niente e noi ci eviteremmo tutti questi fastidiosi controlli di polizia. *Scrittore del Cairo, autore di «Taxi» (Edito in Italia da il Sirente)