| il manifesto | Sabato 16 maggio 2009 | Giuliano Battiston |
LA LETTERATURA COME ISTINTO E DISOBBEDIENZA Chi scrive ha una doppia responsabilità, verso di sé e verso gli altri. L’analisi critica e la liberazione della propria creatività, per l’autrice egiziana Nawal Al Saadawi ospite della ventiduesima Fiera del libro di Torino, sono il primo passo verso il riconoscimento dell’altro.
Prima ancora che nel 1944, a soli tredici anni, scrivesse il suo romanzo d’esordio, Memorie di una bambina di nome Soad, pubblicato molti anni dopo, l’egiziana Nawal Al Saadawi era solita indirizzare delle lettere a Dio, chiedendogli che concedesse a suo fratello il doppio dei diritti, rispetto a lei, «soltanto perché lui era maschio». Fu in quegli anni – racconta oggi – che la futura autrice di Firdaus (Giunti, nuova edizione 2007) divenne femminista, e che il suo femminismo si combinò con la riluttanza ad accettare i precetti di un Dio che «mi aveva creato essere umano soltanto a metà», come spiega in uno dei suoi testi autobiografici, Una figlia di Iside (Nutrimenti, 2002).
Proprio combinando il femminismo, inteso come «rifiuto di ogni forma di ingiustizia, in cielo e in terra, nella famiglia o nello Stato», e una disobbedienza precocemente maturata («ero molto disobbediente, lo sono stata fin da quando ero una bambina», racconta in Dissidenza e scrittura, Spirali, 2008), è nato il percorso di una delle intellettuali del mondo arabo più influenti e ascoltate. Ma anche una delle più temute da quanti – governi e autorità religiose di ogni credo – mal sopportano il coraggio di una donna, medico, psichiatra, scrittrice e attivista, che alle denunce contro le mutilazioni genitali continua ad affiancare la critica alla «clitoridectomia piscologica imposta dal sistema patriarcale e classista» perché, sostiene, «amputare l’immaginazione non è meno pericoloso che amputare parti del corpo».
Un sistema che ha sempre cercato di ostacolarla, censurando i suoi libri, chiudendo le riviste da lei fondate, incarcerandola, includendo il suo nome nelle liste di morte dei fondamentalisti, portandola in tribunale con l’accusa di apostasia. Finora i tentativi delle autorità politico-religiose, ciecamente obbedienti alla legge divina o terrestre, non hanno però fatto altro che accrescere l’autorevolezza di questa donna tenace, obbediente soltanto all’istinto della bambina che era un tempo, quando cominciò a disobbedire.
Abbiamo incontrato Nawal Al Saadawi alla Fiera del libro di Torino, dove oggi alle 15 terrà una lezione su Creatività e dissidenza, affiancata da Isabella Camera d’Afflitto.
Nel suo ultimo romanzo tradotto in italiano, L’amore ai tempi del petrolio (il Sirente, 2009), il Re stabilisce che «ogni donna sorpresa in possesso di carta e penna verrà processata». Lei usa carta e penna da quando era bambina, e sin da allora viene “processata”. Qual è stata la sua “colpa” principale? Disobbedire a quanti rivendicano il possesso di una verità esclusiva e inalterabile?
Non mi è mai piaciuto il verbo obbedire, e ciò che esso significa. L’obbedienza infatti rimanda immediatamente ai precetti politici o religiosi: si deve obbedire alle autorità, a chi detiene il potere, al sistema politico nel suo complesso, a Dio. Inoltre, l’obbedienza contraddice inevitabilmente la creatività, perché essere creativi significa innanzitutto disobbedire ed esercitare le armi della critica. Come lei saprà, dal 1993 tengo negli Stati Uniti e non solo dei corsi universitari dedicati a “Dissidenza e creatività”, nei quali cerco di sollecitare i miei studenti a sviluppare una mentalità critica, un atteggiamento sospettoso verso ogni autorità, che sia Dio, il capo di Stato o chiunque altro presuma di possedere una verità inalterabile. L’analisi critica è il primo passo verso la dissidenza e la creatività, che sono due facce della stessa medaglia.
Lei sostiene che la creatività sia legata alla «capacità di disfare ciò che l’educazione formale e informale ci ha fatto a partire dalla fanciullezza». Vuol dire che non ci può essere vera creatività – e dissidenza – se non si supera quella che definisce come «frammentazione della conoscenza»?
Le porto il mio esempio: ho studiato medicina, ma una medicina impermeabile al resto delle discipline, separata dalla filosofia, dalla religione, dalla politica, dall’economia. Così, sono diventata un medico ignorante di ciò che mi accadeva intorno, proprio perché educata secondo i criteri della frammentazione della conoscenza. La creatività, invece, è lo sforzo volto a disfare questa frammentazione e a riconnettere tutti gli ambiti separati. Che ci sia bisogno di farlo lo dimostrano i fatti: molte delle malattie derivano dalla povertà, e la povertà è una questione essenzialmente politica, perché nasce dalle scelte politiche che rendono alcuni poveri e altri ricchi. Per poter essere dei buoni dottori, perciò, occorre “mettere insieme” le discipline in genere distinte; e per poter essere degli scrittori creativi occorre superare la falsa distinzione tra fiction e non fiction, tra narrativa e saggistica o autobiografia.
La cornice tematica della Fiera del Libro di quest’anno è il rapporto “Io, gli altri”. In un saggio del 2001, lei scrive che la creatività «è la capacità di essere se stessi a dispetto di ogni pressione», ma anche «di riuscire a guardare se stessi in relazione agli altri». Intende dire che non si può ottenere libertà personale e fiducia in se stessi senza responsabilità verso gli altri, senza una relazione sé/altri che non sia compromessa dalla tentazione di dominare l’altro?
Infatti, è proprio così. Sono sempre stata convinta che libertà e responsabilità siano legate in modo indissolubile, che l’una non si possa dare senza l’altra. Io, per esempio, scrivo per me stessa, per il piacere che ne ricavo, per il bisogno di affermare la mia libertà e per dare forma alla mia creatività, ma tengo sempre in mente la responsabilità della pubblicazione, tengo in contro gli altri, i miei eventuali interlocutori, coloro ai quali destino idealmente il mio lavoro. Non si tratta di una scrittura chiusa in se stessa, ma di una scrittura che si apre, costitutivamente, agli altri. La creatività abolisce la divisione tra sé e gli altri, e insieme tutte le dicotomie che abbiamo ereditato dal periodo schiavistico e che il sistema patriarcale classista riproduce: divino/umano, diavolo/dio, paradiso/terra, corpo/spirito, uomo/donna, conscio/inconscio, etc. Grazie alla scrittura, queste dicotomie vengono ricomposte nell’individuo, che a sua volta viene ricollocato all’interno della società, nella relazione con gli altri. Da qui nasce la doppia responsabilità di chi scrive: verso sé e verso gli altri.
«Sono diventata una femminista quand’ero bambina, all’età di sette anni», ha raccontato una volta. Ci spiega cosa intende quando sostiene che oggi le donne debbano affrontare «un doppio assalto», quello del «consumismo del libero mercato» da una parte e quello del «fondamentalismo religioso e politico» dall’altra?
Dicendo che sono diventata femminista a otto anni intendo dire che ogni bambino è naturalmente creativo, ed è consapevole delle ingiustizie che patisce. Quando sono oppressi o limitati, i bambini si rivoltano, disobbediscono, oppure, semplicemente, hanno paura. Ecco, per me femminismo significa rifiutare di avere paura, rifiutare ogni forma di ingiustizia, politica, religiosa, di classe, di genere. Per quanto riguarda il “doppio assalto”, basta pensare alle donne irachene, a quelle afghane, alle palestinesi, che oggi combattono due battaglie: contro l’occupazione americana (o israeliana), legata al consumismo degli Stati Uniti e allo sfruttamento del petrolio, e quella contro il fondamentalismo religioso, incoraggiato proprio dagli americani. Il sistema capitalista patriarcale, classista e razzista, non solo si basa sull’ingiustizia, riproducendola, ma ha bisogno di Dio e della religione per legittimarla. Succede in Iraq, ma succede in Egitto, un paese economicamente colonizzato, in Afghanistan e in Palestina. Per questo, contesto chi parla di post-colonialismo: viviamo invece in un periodo di neocolonialismo.
In un saggio del 2002 su Esilio e resistenza scrive: «Da quando sono nata ho sentito di essere in esilio». Per poi aggiungere: «la scrittura mi ha aiutata a combattere l’esilio e la sensazione di essere “aliena”». Crede che la scrittura sia uno strumento con cui possiamo abitare la nostra “casa esistenziale”, anche se siamo lontani da quella “materiale”?
Chi scrive ha una doppia responsabilità, verso di sé e verso gli altri. L’analisi critica e la liberazione della propria creatività, per l’autrice egiziana Nawal Al Saadawi ospite della ventiduesima Fiera del libro di Torino, sono il primo passo verso il riconoscimento dell’altro.
Cos’è la casa? Dov’è che ci sentiamo propriamente a casa? Non certo in una particolare porzione di terra, non, necessariamente, nel luogo in cui siamo nati. Siamo a casa quando siamo nel posto in cui troviamo giustizia, umanità, libertà e amore, e dove troviamo persone che sentono il bisogno di queste cose e che si battono per ottenerle.
Se siamo sul “suolo patrio”, ma siamo minacciati, oppressi, imprigionati perché ci esprimiamo liberamente, siamo forse a casa? Mentre se siamo lontani dal luogo dove siamo nati, ma ci sentiamo in sintonia con le persone intorno a noi, come mi capita con i miei studenti americani, allora possiamo dirci a casa. La creatività ha il potere straordinario di sospendere l’esilio, perfino di abolirlo. Ricordo che quando ero in prigione e riuscivo a scrivere, sentivo di essere altrove. Grazie alla scrittura ero libera. Nonostante fossi tra quattro mura.