| La Repubblica | Sabato 4 luglio 2009 | Enrico Franceschini |
LONDRA – Israele stava attaccando l’Iran? Era scoppiata la guerra in America Latina? C’era stato un golpe a Mosca? Un attentato in Iraq? O magari, Dio non voglia, una nuova azione di al Qaeda, un altro 11 settembre? I traders della City che comprano e vendono petrolio sui mercati internazionali, martedì scorso, si telefonavano freneticamente ponendo domande di questo genere, nel tentativo di spiegarsi cosa stava succedendo. Soltanto un qualche terremoto geopolitico, evidentemente non ancora diffuso da televisioni e agenzie di stampa, poteva giustificare l’improvvisa ascesa del prezzo del greggio. In un’ora, l'”oro nero” era salito da 71 a 73,5 dollari a barile, il livello più alto dell’anno. In sessanta minuti, contratti a termine per 16 milioni di barili di petrolio, i “futures” come si chiamano in gergo, avevano cambiato di mano: l’equivalente del doppio della produzione quotidiana dell’Arabia Saudita, maggiore produttore di petrolio al mondo. Molto più dei tradizionali 500 mila barili normalmente oggetto di compravendita a quell’ora della giornata. Cosa c’era sotto?
Ora si scopre che la geopolitica non c’entrava nulla. La causa dell’impennata del greggio era un “broker canaglia” londinese. La sua identità è stata rivelata ieri dal Financial Times: si chiama Steve Perkins, lavora per la Pvm Oil Associates, più grande compagnia di brokerage petrolifero non quotata in Borsa, ha fama di operatore esperto e ben considerato dai colleghi. Ma a un certo punto, martedì, ha cominciato a compiere “operazioni non autorizzate”, piazzando massicce puntate sul mercato dei “futures”. Da solo è stato responsabile di metà dell’attività insolita, e il resto del movimento è avvenuto perché altri broker gli sono andati dietro, pur senza comprendere la ragione di quanto stava avvenendo. Quando la Pvm ha capito che dietro il boom di contrattazioni c’era qualcosa di illecito, ha dovuto interrompere le contrattazioni e denunciare il fatto alle autorità, subendo una notevole perdita: 10 milioni di dollari, bruciati dai trucchi di una “canaglia”, in meno di sessanta minuti.
Perché Perkins lo abbia fatto, rimane per ora un mistero. La Pvm non parla. Lui nemmeno. Anzi, nemmeno si sa dove sia. Ma in attesa che la Financial Services Authority, l’organismo che controlla il settore finanziario britannico, renda noti i risultati della sua indagine, non è difficile immaginare che il “broker canaglia” avesse orchestrato un complotto per favorire qualche grosso speculatore e ricavarci a sua volta una bella percentuale. Non è il primo, né certo sarà l’ultimo, a compiere imprese simili. Non sempre il movente è il profitto. Appena il mese scorso un altro trader del petrolio, che lavorava nella sede di Londra della Morgan Stanley, è stato licenziato per avere nascosto ai suoi boss le perdite che aveva accumulato con operazioni fatte sotto l’effetto dell’alcol: era tornato in ufficio, dopo una pausa per il lunch durata tre ore, ubriaco fradicio. Più spesso, vincite o perdite sono il frutto di una tentata truffa. A partire da Nick Leeson, il broker inglese che provocò il collasso di una delle più vecchie banche di investimenti britanniche, la Barings, perdendo un miliardo e mezzo di sterline dal suo ufficio di Singapore: dove lui finì in carcere, mentre la banca, o quel che ne restava, veniva venduta per una sterlina nominale a una concorrente olandese. L’ironia della sorte, nel caso del “broker canaglia” di martedì scorso, è che il presidente della Pmv è uno dei più spietati critici delle speculazioni eccessive sul mercato del greggio, da lui soprannominato “il casinò elettronico del petrolio”. Un croupier stava portandogli via la cassa sotto il suo naso e lui non si era accorto di niente.