di Silvia Lutzoni
«Non è uno studio sociologico o antropologico, né tantomeno un reportage giornalistico», ha dichiarato Khaled el-Khamissi, giornalista, regista e produttore (dirige la Nile Production Company), a proposito di Taxi. Le strade del Cairo si raccontano, suo libro d’esordio che, dalla sua uscita al Cairo a gennaio 2007, è ormai arrivato alla dodicesima ristampa ed è già stato tradotto in inglese e francese. Resta comunque difficile tentare di collocarlo all’interno di un genere letterario ben definito quando è vero che è costituito da cinquantotto dialoghi – scritti in arabo dialettale – tra un giornalista e una serie di tassisti cairoti che fotografano così l’Egitto con tutti i suoi problemi, senza lesinare attacchi al Potere, ma non rinunciando mai a una dose massiccia di ironia. Ed è proprio la scelta dell’arabo colloquiale che deve aver posto non poche incertezze al traduttore, Ernesto Pagano, fino a condurlo alla scelta di appoggiarsi al suo retroterra culturale: i dialoghi sono stati infatti resi con l’uso di locuzioni tipicamente campane (ma uno dei racconti, Filosofia del tassinaro, è in romanesco) che, se da un lato potrebbero avere l’effetto di decontestualizzare il racconto, fino a disorientare il lettore, dall’altro assicurano agli scambi la vivacità urbana che l’uso dell’italiano avrebbe forse penalizzato. Il libro, pubblicato dall’editore dell’Aquila il Sirente, inaugura la collana «Altriarabi», che si propone di presentare al lettore italiano quegli autori arabi che non si conformano al nostro stereotipo di orientale, e che tentano di rappresentano i loro Paesi discostandosi da quello che spesso è un immaginario colonizzato.
Come è nata l’idea di scrivere un libro come Taxi?
E’ difficile parlare di un inizio. Questo libro è nato come il frutto di un insieme di circostanze e di idee. Nella mia casa si respirava cultura e posso affermare che letteratura fosse nei miei geni: sono nato e cresciuto in una famiglia di scrittori, lo era mio padre, mio nonno, e anche i miei zii sono scrittori. Ho studiato scienze politiche alla Sorbonne a Parigi, dove i miei professori mi hanno abituato ad indagini complicate e altamente pedagogiche sulla società e sui fenomeni politici. Ma sono sempre stato affascinato dalla semplicità delle analisi della gente comune – e gli egiziani in queste sono impareggiabili – che con strumenti disparati sono in grado di fornire analisi economiche e sociologiche molto più esaustive di quanto non riesca a fare un accademico. Ho pensato che sarebbe stato interessante parlare di storie normali, ecco, della vita vera. Ma non sono effettivamente mai salito su un taxi pensando di intervistare il tassista, né avrei mai pensato che dalle chiacchiere scambiate per passare il tempo, per cortesia, avrei mai tratto un libro. L’idea è venuta dopo.
Nella «Premessa indispensabile» al libro lei dichiara di aver escluso dal libro alcuni dialoghi perché ritenuti inopportuni.
E’ stato un avvocato a suggerirmi di eliminare dal libro alcuni dei dialoghi, ma per evitare di incappare in procedimenti legali, non per paura della censura. Molte storie parlano di fatti che tutti conoscono, di cui tutti parlano, ma di cui non esiste certezza perché nessuno di questi personaggi è mai stato ufficialmente processato. Allora parlarne è lecito, scriverne è un altro discorso.
E’ stata dunque una sorta di autocensura in un Paese in cui la censura ufficialmente non esiste.
Non è ufficiale, certo, ma è presente, e la strada è l’unico luogo dove la gente può parlare liberamente. Il popolo egiziano ha avuto una storia di oppressione tra le più lunghe in assoluto, per cui credo che abbiamo sviluppato una specie di gene che testimonia della nostra paura del Potere. Per sopravvivere non facciamo altro che produrre barzellette sul Governo e sulle istituzioni. L’ironia resta la nostra unica arma di difesa.
Taxi è stato pubblicato a pochi anni di distanza da un altro bestseller, Palazzo Yacoubian (Feltrinelli, 2006), di Alaa Al-Aswani, un romanzo che, seppur diverso nella forma e nei temi trattati, è caratterizzato da un certo impegno civile. Entrambi hanno venduto oltre centomila copie, un fenomeno piuttosto inconsueto, se consideriamo che il mercato librario arabo, per quanto in forte espansione, non annovera più di venti, trentamila titoli l’anno. E’ stato l’impegno civile il segreto del successo di questi libri?
Sono molti i libri impegnati civilmente che vengono pubblicati ogni anno in Egitto, ma nessuno di questi diventa un bestseller. Non so che cosa sia necessario per assicurare a un libro il successo di vendite, e noi scrittori non abbiamo una ricetta. Il mio e il libro di Alaa al-Aswani non sono stati concepiti per diventare bestseller, ma per esprimere qualcosa che sentivamo la necessità di mettere per iscritto.
Quello sulla diglossia nei Paesi arabi è un dibattito tanto antico quanto enorme. Lei ha scelto di scrivere la maggior parte del libro in dialetto egiziano. Una scelta discutibile se si considera quanto di recente affermato da Alaa Al Aswani, e cioè che sono gli orientalisti a sostenerne l’uso.
Scrivo in l’arabo standard nelle parti in cui è il narratore a raccontare, mentre mi servo del dialetto egiziano nei dialoghi: il punto è che i dialoghi costituiscono l’ottanta per cento del libro. Non mi pare di aver operato una scelta innovativa: basti pensare soltanto a un libro come Il ritorno dello spirito del grande drammaturgo e narratore egiziano Tawfìq al Hakìm, un libro pubblicato negli anni Venti del secolo scorso in cui tutti i dialoghi sono scritti in vernacolo. E’ dunque una caratteristica che entrata da tempo nella nostra letteratura. Inoltre, per me era ovvio che nel momento in cui avevo scelto di ambientare i miei racconti nella strada, la lingua della strada fosse di conseguenza l’unica attendibile. Posso accettare solo in parte ciò che sostiene Al Aswani quanto agli orientalisti. Ho molto rispetto per il dialetto egiziano: è la lingua che effettivamente parliamo: è una lingua vera e viva. Rispetto anche la fushà, l’arabo standard, perché rappresenta la nostra storia, ed è la lingua che ci permette di mantenere una certa relazione tra i Paesi arabi. Credo che non si tratti di una competizione, però, per cui io posso dire di stare con una o con l’altra squadra. Non è così facile: posso parlare e scrivere in entrambi, sono due elementi che non possono fare a meno di convivere nella mia cultura.
Uno dei tassisti protagonisti del libro afferma: «Vorrei vedere con tutto il cuore i Fratelli Musulmani salire al potere [… ] E perché no?! Abbiamo già provato tutto. Provammo il re e non funzionava, provammo il socialismo con Nasser e nel pieno del socialismo ci stavano i gran pascià dell’esercito e dei servizi segreti […] e allora perché non proviamo pure i Fratelli Musulmani? Chi lo sa, va a finire che funzionano».
Ho sentito questa frase detta da centinaia di persone, e persone di diversi livelli sociali. Ho un amico che lavora al Marriott hotel che è della stessa opinione: dall’età di sedici anni studia e lavora nel campo del turismo e quando ho obiettato che con i Fratelli Musulmani al potere, molto probabilmente, il Marriott non avrebbe più modo di esistere e lui di conseguenza perderebbe il lavoro, mi ha risposto che la cosa non lo interessava.
Qual è il ruolo della cultura oggi in Egitto?
Il governo ha fatto di tutto negli ultimi vent’anni per affermarsi come l’unico produttore di cultura. E ciò vale per quanto riguarda la letteratura, la televisione, il cinema. Negli ultimi tre, quattro anni, però, i produttori privati stanno aumentando, e così sono aumentati i romanzi pubblicati, le produzioni teatrali e televisive. Adesso possiamo veramente avere la speranza di poter fare qualcosa di nuovo e valido nel futuro. La macchina della cultura è in movimento, insomma.
Una gestione privata in questo senso gioverebbe alla cultura?
Non posso dire se una gestione privata possa costituire una soluzione. C’è tutto un sistema organizzativo che deve necessariamente essere riformato. Pensiamo a un evento come la Fiera del libro del Cairo: il Governo dovrebbe smettere di occuparsene, su questo non c’è dubbio, per lasciare spazio a chi la cultura e la letteratura effettivamente produce, ma questo non accadrà facilmente. Ho passato tutta la mia vita a tentare di produrre cultura e nel rapporto con le istituzioni – parlo di funzionari, non delle alte istituzioni – ho sempre avuto delle difficoltà, mi sono stati imposti dei limiti. Di certo con una gestione privata non accadrebbero episodi incresciosi come quello accaduto proprio nel 2007 alla Fiera del Libro. Per quella occasione invitai a parlare del mio libro due tra i più eminenti intellettuali egiziani, Galal Amin e Abd el-Wahab el-Messiry. Quest’ultimo, deceduto lo scorso luglio, aveva dei problemi di salute, così chiesi che potesse avere la possibilità di arrivare all’ingresso della sala conferenze con la sua auto. Mi fu data l’autorizzazione, ma all’ingresso la sua auto fu bloccata da un ufficiale che cedette alle nostre richiesta soltanto perché il direttore della fiera, Nasser al-Ansari, in quel momento si trovava a passare accanto a noi. Così l’auto varcò i cancelli, ma duecento metri dopo fu fermata da un altro ufficiale: questa volta, senza l’aiuto di al-Ansari, non poté proseguire. Ora, un uomo come Nasser al-Ansari è il direttore della fiera, e una delle menti migliori del nostro Paese non può accedervi per i capricci di un basso funzionario. Sembra uno scherzo, un brutto scherzo, ma questa è la realtà dei fatti nel mio Paese.
Bahaa Taher, uno fra i più importanti scrittori egiziani contemporanei, in «Amore in esilio», romanzo scritto nel 1995 e appena tradotto da Ilisso, faceva pronunciare al protagonista queste parole: «Tutti gli arabi hanno smesso di crescere».
Sono passati tredici anni dalla pubblicazione di quel libro: è chiaro che Bahaa Taher si riferisse con quelle parole a una situazione storica che con il tempo non ha potuto che modificarsi. Credo di poter sostenere, senza incertezze, che stiamo davvero cominciando una nuova era della nostra storia culturale. E’ vero, tuttavia, che abbiamo dei problemi. I Paesi arabi, ognuno a suo modo, stanno attraversando il periodo più buio degli ultimi cento anni. Siamo totalmente occupati dagli Stati Uniti: fisicamente come avviene in Iraq o virtualmente come accade in Egitto. I nostro governi dipendono in tutto e per tutto da quello americano. Ma ciò che è peggio è che molti Paesi europei stanno seguendo e concordano con quel genere di politica e vi contribuiscono. Dobbiamo ammettere che i nostri sono Paesi occupati.