FÙCINO. ACQUA, TERRA, INFANZIA di Roberto Carvelli
Il Centro (Nino Motta, 27 giugno 2018)
Acqua, terra e infanzia: il Fùcino come una patria
Nel panorama della narrativa contemporanea capita raramente di leggere romanzi di autori slegati dalla cultura del Decadentismo, solitamente individualistica e intrisa del gusto del fallimento e della rovina. Roberto Carvelli, con “Fucino. Acqua, terra, infanzia” (Editrice Il Sirente) rappresenta un’eccezione. L’autore, tornando con l’immaginazione agli anni della sua infanzia, trascorsa a Cerchio, tra gente «leale, riservata e generosa», non rivive solo i conflitti esistenziali, familiari e interiori, propri di quell’età, ma riscopre anche i vasti orizzonti dell’epica, della civiltà contadina, del vivere a contatto con la natura.
IL MIO INFINITO
«Il mio Infinito», scrive Carvelli, «ha il profilo del lago non più lago del Fucino, che ho guardato per anni dall’alto della casa di villeggiatura, costruita da mio padre nei primi anni Settanta».
Dopo poco più di un decennio la casa venne venduta e la famiglia si trasferì definitivamente a Roma. Carvelli aveva 15 anni.
«E’ doloroso pensare», rileva Carvelli, «che quella vendita sia in qualche modo il portato di una nostra – di me e mio fratello – distonia rispetto a quelle villeggiature in epoche in cui tutti i nostri compagni di scuola potevano raccontare estati di amori e avventure in comitiva: noi non eravamo più disposti a raccontare le sole avventure della campagna, delle serpi, del silenzio, dei monti e di un lago che non è un lago».
Il legame dello scrittore con quel mondo da cui si è visto «sradicato», però, non si è mai spezzato. Ripensa a quel periodo come a un’iniziazione alla vita selvaggia, mediata più dagli animali che dagli uomini: «La nostra vita a Cerchio sembrava prestare il fianco al predominio pressoché incontrastato della natura e alle sue leggi poco umane».
MAGIA
Lo scrittore si sente legato al reale, alla natura, alla vita, agli animali e agli uomini, ma è anche attratto dai miti e dalle leggende del luogo. «La storia di questa regione», osserva, «è fatta oltre che di storia, di magia: magici sono il lago, le acque, il loro potere distruttivo e rigenerativo, magiche le montagne che li circondano». E ancora: il culto della dea Angizia, sorella della maga Circe; il mistero di Archippe: per alcuni è l’antica Ortucchio, per altri un re; i poteri soprannaturali dI Umbrone «che soleva col canto e la mano infondere il sonno/alla razza delle vipere e alle idre dal velenoso respiro» (libro VII dell’Eneide). L’autore non tende più a vivere da solo, ma a mettere in relazione ricordi e storia personale con la storia collettiva. Ne risulta un romanzo epico, corale, il cui protagonista è un intero popolo: quello marsicano. E lo scrittore ne è l’aedo.
L’IMPRESA
Così Carvelli più che raccontarla la storia di questa esperienza spera di riuscire a “cantarla”. Canta la straordinaria impresa del prosciugamento del lago «dall’onda cristallina» (Virgilio), che segna la fine di un’attività fiorente: la pesca, soppiantata da quella agricola, e la scomparsa, a causa del mutamento del clima, degli ulivi e delle viti; la tragedia del terremoto del 13 gennaio 1915 che sconvolse la Marsica e rase al suolo Avezzano; il dolore delle madri, rimaste sole, nel vedersi strappare i figli, sopravvissuti al sisma, per essere mandati a morire nelle trincee; l’eroica lotta dei contadini del Fucino per cacciare Torlonia e diventare padroni della terra che coltivavano, e quella dei «Patrioti marsicani» contro i nazisti per la conquista della libertà. Per tratteggiare il carattere dei marsicani l’autore sceglie tre personaggi: Ignazio Silone, il tormentato scrittore che vede nella lotta la via con la quale i “cafoni” dell’Abruzzo e del mondo possono realizzare il loro sogno di libertà e giustizia; il vulcanico Mario Spallone, ex medico di Togliatti, che eletto nel 1993 sindaco di Avezzano, seppe infondere fiducia e dare speranza a una città che, dopo Tangentopoli, era allo sbando; il grintoso e ribelle Vito Taccone, il campione di ciclismo, che «aveva talmente voglia di arrivare, da allenarsi sulla salita di Capistrello carico di pane».
FIGURE MARSICANE
«Nella sintesi di queste tre figure marsicane», scrive Carvelli, «c’è tutto il profilo di questa gente che lotta per la giustizia, scopre l’ingiustizia e rischia – per il proprio carattere non facile al ripiego – di finirne vinto o fiaccato».
Tra Carvelli – per il quale «le pagine più belle della vita di Silone rimangono quelle dei rapporti con il fratello Romolo, per il quale Silone si tormenterà fino alla morte» – e il grande scrittore abruzzese vi sono delle affinità.
Anche Silone, all’età di 15 anni, a seguito del terremoto, dovette lasciare Pescina. Ma i luoghi dell’infanzia rimarranno per sempre scolpiti nella sua anima. Alcuni anni più tardi, mentre era esule in Svizzera, «col materiale degli amari ricordi e dell’immaginazione» si “fabbricherà un villaggio che chiamerà Fontamara e «comincerà a viverci dentro». Nella realtà Fontamara indica la via dove Silone è nato. Viene però un giorno in cui nella vita di un uomo che vive lontano dalla sua terra, il bisogno di tornarvi si fa desiderio struggente. Silone salta su treno e torna al paese.
IL LUOGO
Il luogo che «per quindici anni aveva costituito il chiuso perimetro della sua coscienza» si trova lì, intatto, tale e quale se l’era immaginato e vagheggiato.
Osservando quel «ritrovato paese dell’anima», lo scrittore è assalito dalla commozione. «Quante volte – farà dire a Pietro Spina, in Vino e Pane – nelle mie notti d’esilio, senza mai averle mai viste, ho sognato queste terre, queste alture, questa vita». Ma la realtà è diversa da come l’immaginava. Ed egli se ne riparte, portandosi fitta nel cuore la tragica «pena del ritorno».
Ma per quanto «estraneo» e «indifferente» sia quel mondo, Silone non riesce a immaginarne un altro nel quale possa concludere la sua «avventura».
«Mi piacerebbe», dirà nel testamento, «di essere sepolto ai piedi del vecchio campanile di San Berardo, a Pescina, con una croce di ferro appoggiata al muro e la vista del Fucino in lontananza». Il Comune di Pescina ha rispettato le sue volontà.
Anche Carvelli sente spesso l’impellente bisogno di tornare a vedere la casa di Cerchio e a visitare il piccolo cimitero, che ha battezzato la «Spoon river fucense».
LE PICCOLE FOTO
«Mi muovo in mezzo alle poche tombe come se stessi riabbracciando tutta la parte perduta del mio passato a Fucino. I loculi discendono verso le immaginarie sponde del lago, impilati. I morti sembrano fissare malinconici l’acqua che non c’è più e forse qualcuno di loro, avendola già vista prima del prosciugamento, ora riesce ancora a ricordarla. Forse cercano di riudirne la risacca, forse ne colgono l’agitazione. Sono stato anche qui a cercare le piccole foto ovali delle persone che ho conosciuto e a cui ho voluto bene nella mia infanzia. I nomi degli scomparsi, i morti terremotati». E come Silone non riesce a immaginare un altro luogo nel quale possa concludere la sua «avventura».
«Dato che mi piacerebbe essere cremato e sogno di sapermi sparso in cenere in qualche dove, penso che potrebbe essere questo il posto giusto. Magari dall’alto di una montagna verso il lago che fu».