| L’Opinione delle Libertà | Mercoledì 23 marzo 2011 | Maria Antonietta Fontana |
“Poco prima della mezzanotte del 1 novembre 2006, Alexander Litvinenko, un ex agente dell’intelligence russa che viveva in esilio politico a Londra, si svegliò che stava proprio male. Nel giro di qualche giorno, una spaventosa fotografia del suo corpo emaciato in un letto d’ospedale scioccò il mondo.
Tre settimane più tardi era deceduto per avvelenamento da polonio-210, un isotopo radioattivo che secondo gli investigatori era stato versato di nascosto in una bevanda”. A volte mediocri scrittori di gialli inventano le trame più astruse per cercare di coinvolgere emotivamente i propri lettori.
Ma quando le trame e gli intrighi sono cronaca e storia, la loro presa sulla pubblica opinione è immediata ed ha una portata assolutamente dirompente. Certo è, però, che portare alla luce del sole certe vicende implica la necessità di un grandissimo coraggio, oltre che basarsi su una conoscenza approfondita e di prima mano delle realtà su cui si pretende di fare chiarezza.
Se poi queste caratteristiche si sposano con una grande abilità nel tenere la penna in mano, il risultato è assolutamente avvincente. E questo è proprio il caso del libro di Steve LeVine “Il labirinto di Putin: spie, omicidi e il cuore nero della nuova Russia”, pubblicato in italiano dal Sirente a fine settembre 2010 (l’edizione originale in inglese è apparsa nel 2008) nella collana “Inchieste”, dove già era apparso il suo volume “Il petrolio e la gloria”, e di cui vi abbiamo appena proposto l’incipit prepotente ed efficacissimo.
Il libro si apre e chiude con l’assassinio di Livtinenko, ucciso nel novembre 2006 attraverso una contaminazione di polonio 210; e analizza in dettaglio una lunga serie di altri improbabili e fantasiosi omicidi politici o di strane inettitudini nell’affrontare crisi politiche particolari.
Nell’ordine i più significativi sono: Nikolai Khokhlov, la strage di Nord-Ost, Paul Klebnikov, Anna Politovskaya, Natalia Estemirova. I personaggi che entrano in questo dramma sono loro, le vittime illustri di un gioco al massacro, insieme ad altre personalità di primo piano, tra cui ovviamente Vladimir Putin, Dmitri Medvedev, ma soprattutto quel Boris Berezovsky che aveva fatto e disfatto le fortune di molti uomini politici russi e che tirò fuori dal nulla Putin: ma stavolta aveva sbagliato i calcoli, e nel contrasto con quest’ultimo è stato poi costretto a rifugiarsi nel proprio dorato esilio a Londra, da dove ha continuato e continua ad animare e sponsorizzare economicamente l’opposizione a Putin ed al “putinismo”.
Non è un caso che Livtinenko, scappato dalla Russia sei anni prima della sua prematura morte, fosse sul suo libro paga. Le motivazioni che portano LeVine a scrivere questa inchiesta affondano le proprie radici nella sua missione professionale di giornalista da sempre interessato a studiare gli intrecci tra il potere derivato dalla produzione e distribuzione del petrolio e le vicende politiche mondiali, nonché dalla propria emotività personale, ed in particolare dalla commozione suscitata in lui dalla morte del collega del Wall Street Journal ed amico, Daniel Pearl, rapito ed ucciso in Afghanistan nel 2002.
In realtà LeVine cercherà di dimostrare l’esistenza di un filo sottile e infrangibile che lega insieme tutta una serie di strani casi di cronaca nera svoltisi in Russia. La chiave di lettura che egli ci propone fa rabbrividire, anche se non costituisce certamente una sorpresa per chi si interessi di storia russa.
Infatti tradizionalmente la Russia ha sempre riprodotto un modello di comportamento uguale a se stesso: fino a che questa ha costituito un motivo di interesse fondamentale nella strategia delle comunicazioni planetarie, ha sempre perseguito l’espansione verso il mare (fosse questo il Pacifico ad est, o il Mediterraneo a sud – con tutto quel che ne consegue quanto a coinvolgimento nelle questioni dei Balcani).
Quando poi la questione delle comunicazioni marittime e quindi dello sbocco sugli stretti sembrava superata dallo sviluppo tecnologico, si è imposto un altro problema: quello del controllo delle vie del petrolio e del metano. Per ottenere questi scopi, gli zar prima, i dittatori sovietici poi, e adesso – secondo l’analisi di LeVine – Putin, non hanno esitato a ricorrere all’omicidio e perfino alla strage di stato.
E ci sono più modi di agire: sia attivamente, sia –come LeVine ribadisce – passivamente. Infatti anche gli “errori” nel gestire le crisi, quando si ripetono, non possono più essere considerati casuali, ma evidentemente entrano a far parte di una strategia che ha il solo scopo di fare perseguire al governo quel che questo si propone.
E’ molto interessante scoprire le motivazioni che sottostanno a certe scelte. Infatti, come LeVine ricostruisce attraverso un paziente lavoro di interviste, confronti tra dati, libri, testimonianze, ricostruzione di fatti, etc etc, dopo la caduta di Gorbacev in Russia si assiste ad un periodo di caos e di caduta della sicurezza personale a livelli mai stati tanto bassi (se non tornando indietro nel tempo alle lotte dei boiari dei tempi di Ivan Groznyj – quello che noi chiamiamo “Ivan il Terribile”); ma poi l’arrivo al potere di Vladimir Putin pone fine a questa situazione, perché rientra nella visione di quest’ultimo lo scopo di restituire alla Russia il suo ruolo di stella di prima grandezza nella politica mondiale.
E questo significa intanto garantire uno stile di vita più consono ad una rinnovata grande potenza. Ma Putin, secondo LeVine, nel cercare di centrare il proprio obiettivo, non ha alternative che spazzare via qualsiasi tipo di opposizione che possa indebolire l’immagine del proprio Paese all’estero.
Così chi si oppone deve sparire. Certo, lo si fa prevalentemente all’interno degli stessi confini russi, dove poi si può garantire la copertura a chi opera gli assassinii. E il modo scelto per operare è fantasioso, ed ha lo scopo di non consentire mai di risalire ai veri mandanti.
Berezovsky, che da anni vive in esilio in Gran Bretagna, ha dovuto uscire dal proprio Paese come conseguenza del successo dell’ascesa di Putin, che egli stesso aveva caldeggiato e favorito in tutti i modi. LeVine analizza le manovre che hanno portato al potere l’apparatcik del KGB dagli occhi di ghiaccio, smantellando il mito di un Putin grande agente segreto assurto al potere proprio in virtù di sue personali capacità ed informazioni; Putin fu inizialmente scelto perché apparentemente tutto d’un pezzo nell’amore e nella fedeltà al servizio del proprio Paese (e, quindi, secondo Berezovsky, abbastanza semplice da convincere a stare dalla propria parte).
Allo stesso modo, terminato il secondo mandato presidenziale, Putin ha fatto scegliere Medvedev, perché costui non presenterebbe quelle caratteristiche di decisionismo che potrebbero farne un nuovo autocrate. Putin stesso, però, nel frattempo, è riuscito a sorpresa a sostituire alle idee di Berezovsky i propri scopi, servendo a modo suo l’idea del ritorno della Grande Madre Russia sul palcoscenico internazionale.
La Russia di Putin oggi naviga tra violenza e cultura di morte, e l’ipocrisia di stato può consentire a Mevedev di deprecare la morte della Estemirova e dichiarare che si cerca attivamente l’assassino, ma a distanza di un anno dall’esecuzione della paladina dei diritti umani dell’organizzazione “Memorial” (ben attiva ai tempi di Eltzin, e tristemente svuotata di ogni slancio a distanza di pochi anni) nessun risultato è seguito, perché il controllo degli Interni e degli apparati di sicurezza militari resta saldamente nelle mani di quello stesso Putin che ha chiaramente ingaggiato un nuovo braccio di ferro con l’Occidente e sta velocemente riportando la Russia verso i ben noti sistemi sovietici con la sola esclusione del ripristino di un sistema di visti per i viaggi – perché tornare alle limitazioni sui movimenti dei russi all’estero gli costerebbe troppo in termini di popolarità, e non può permetterselo neanche lui.
Con molta lucidità, LeVine ci indica anche i punti in cui le proprie convinzioni personali quanto al coinvolgimento di Putin in certe vicende non incontrano l’accordo di altri studiosi, storici, o personaggi direttamente coinvolti nei fatti esaminati in questo suo libro. Resta il fatto che il ritmo incalzante degli avvenimenti, la ricostruzione di momenti di grande tensione (quale l’attentato al Teatro Dubrovka o la tristissima storia della strage di Beslan, in Ossezia, nel 2004), la citazione precisa di testimoni e documenti rendono la lettura di questa inchiesta un avvincente “must” per chiunque intenda affrontare l’esame della politica est-ovest e le sue prospettive in questo scorcio di nuovo millennio.
Anche se, purtroppo, la conclusione che se ne trae, è che il lupo perde il pelo, ma non il vizio. E, come lo stesso LeVine conclude nella sua postfazione al libro, datata 16 luglio 2010, è che “le dichiarazioni rese e le indagini ordinate da Medvedev non hanno rappresentato una rottura convincente con il lungo passato”.