| La Repubblica | Domenica 6 febbraio 2011 | pp. 32-33 | sezione: Domenicale | Francesca Caferri |
Lunedì 24 gennaio. È la sera prima della manifestazione, non sappiamo cosa aspettarci. Abbiamo molte speranze, ma domani quante saranno le persone che verranno in piazza? Comincio a ricevere un sacco di telefonate di amici, e così mi ritrovo a pensare, a sapere nel profondo del mio cuore, che quella che stiamo per vivere è la fine del regime di Mubarak. Dico a tutti quelli che conosco che domani dobbiamo andare in piazza: se non cambi qualcosa di piccolo tu, le cose grandi non cambieranno mai.
Martedì 25 gennaio. Il mio sogno sta diventando realtà: in strada, improvvisamente, ci sono migliaia di persone. Gente che non ha nessuna esperienza politica, che non è mai stata attiva, ma che oggi risponde all’ appello lanciato in nome di Khalid Said (un giovane attivista egiziano fermato e picchiato a morte da due poliziotti fuori da un internet cafè ad Alessandria qualche mese fa). La pagina a suo nome su Facebook è stata una di quelle che hanno chiamato alla protesta: ma non mi aspettavo che in così tanti rispondessero.
Mercoledì 26 gennaio. Possiamo farcela. Dopo la fiammata di ieri, anche oggi la gente è tornata in strada. Internet non funziona, i telefonini sono muti, niente sms. Ma tutti ci siamo diretti a piazza Tahrir: per passaparola, perché questa è la piazza della Liberazione (Tahrir in arabo, ndr). E noi vogliamo essere liberi. È una specie di miracolo, ritrovarci tutti qui. Oggi abbiamo deciso: il momento decisivo sarà venerdì, dopo la preghiera di mezzogiorno.
Venerdì 28 gennaio. In centro, con mia moglie. Andiamo verso piazza Tahrir, vediamo arrivare gente da ogni direzione. Occupiamo la piazza. La polizia è preoccupata, ma noi siamo tantissimi. Provano a fermarci, scontri, ma davvero è impossibile buttarci fuori da questa piazza. Tutto accade molto in fretta: prima la gioia, poi la rabbia, gli scontri con la polizia, i cannoni ad acqua, le pallottole di gomma. Arrivano i tank dell’ esercito, abbiamo davvero paura: non sappiamo cosa faranno. Poi ci dicono: «Siamo con voi». Un’ esplosione di felicità. Dura poco: la televisione annuncia un discorso di Mubarak. Ciò che dice gela il nostro umore, la piazza è furiosa. Una giornata pazzesca oggi. Torno a casa tardissimo, solo per riposare un po’ .
Sabato 29 gennaio. Mi sveglio ancora pieno di rabbia. Tutto è così ingiusto. Le promesse fatte ieri sera da Mubarak non possiamo accettarle. Questo è ancora più chiaro ora, al sorgere del sole. Troppo poco, troppo tardi. Dobbiamo trovare il modo di urlarlo al mondo che ci guarda: così non va bene. Voi in Occidente avete scritto molto su Mohammed El Baradei (l’ex segretario generale dell’ Aiea, premio Nobel per la pace e da mesi indicato come l’ antiMubarak, ndr). Noi artisti e intellettuali lo appoggiamo in vista di una transizione: anche i Fratelli musulmani lo fanno. Ma dovete stare attenti: è la rabbia della gente che muove questa protesta, soprattutto la rabbia dei giovani che si organizzano via Internet. Sono le loro voci che devono essere ascoltate, non quelle della politica.
Lunedì 31 gennaio. Restare in piazza, non andare via: è l’ unico modo per ottenere qualcosa. E allora la gente decide di restare a piazza Tahrir, dandosi il cambio. «Come a Tienanmen», mi dice un amico. Lo sappiamo, ci abbiamo pensato. Lo voglio dire chiaro: a questo punto siamo pronti a tutto. Se Mubarak vuole fare un bagno di sangue, sappia che la gente è pronta al bagno di sangue. Chi sta in piazza oggi non è più un cittadino ordinario dell’Egitto, è una persona consapevole. «Voglio rendere il mio paese migliore», mi ha detto un ragazzino: aveva vinto una borsa di studio, doveva partire, non lo ha fatto, non è il momento. Non siamo più silenziosi e rassegnati: la gente intornoa me vuole solo una cosa. Un cambiamento vero e uno stato realmente democratico: non ci fidiamo di Omar Suleiman (il capo dei servizi segreti nominato vicepresidente qualche giorno fa, ndr ), non vogliamo ascoltare le sue parole quando parla di «transizione»: non siamo scesi in piazza per avere lui: vogliamo essere liberi, insegnare alla gente cosa sono i partiti e la democrazia.
Giovedì 3 febbraio. Quello che sta accadendo è la realizzazione delle idee che ho scritto nel mio libro: l’ inerzia a usciree partecipare che tanto criticavo oraè finita. Una vendetta contro la censura che ha bloccato il mio libro? No, non è questo. Io non mi vendico, ma è bellissimo. Non come finirà. Mubarak ha parlato di nuovo ieri, pensavamo che si dimettesse: non lo ha fatto. Non capisce che la gente non lo vuole. La rabbia monta. Gli agenti della sua guardia nazionale, che indossano le uniformi dell’ esercito, ci stanno attaccando, tirano sassi, alcuni sono armati. Ma non ci fermiamo. Ieri ho disegnato. Poco, solo per raccontare quello che sta succedendo. Scriverò un altro libro quando tutto questo sarà finito. E sarà la storia di questi giorni. Ma ora è troppo presto per pensarci.