IL MANIFESTO – 07/12/2008
di Giuliano Battiston
Giornalista, sceneggiatore e produttore cinematografico con alle spalle studi di Scienze politiche al Cairo e alla Sorbona, Khaled Al Khamissi dal 2007 è anche uno degli scrittori più letti dal pubblico egiziano, di cui ha conquistato l’attenzione con una raccolta di storie in cui le voci dei tassisti cairoti diventano un filtro attraverso il quale riflettere – a volte amaramente, più spesso causticamente – sui problemi della società egiziana, soffocata da un potere asfissiante e brutale e «abituata a non avere voce». Abbiamo rivolto qualche domanda a Khaled Al Khamissi, che oggi a Roma alle 14 presso la Fiera della piccola e media editoria presenta il suo libro, Taxi. Le strade del Cairo si raccontano (Il Sirente, pp.191, euro 15) – insieme al traduttore Ernesto Pagano, a Chiarastella Campanelli e a Igiaba Scego.
Secondo la celebre definizione di Stendhal, il romanzo è uno specchio portato lungo una strada; lei invece sembra usare i taxi cairoti come uno specchio per riflettere le vicende della società egiziana. Ci spiega le ragioni della sua scelta?
Non è stata una scelta del tutto consapevole: al processo della scrittura contribuiscono molti elementi, e alcuni di questi non sono di ordine razionale. Comunque, volevo parlare innanzitutto delle strade, poiché tutte le strade sono fortemente rappresentative della società e ne riflettono le pulsazioni più intime, e solo in un secondo momento ho scelto i tassisti, coloro che ascoltano e raccontano le storie delle persone che abitano le strade. Inoltre, anche se per gran parte della mia vita ho studiato scienze politiche e ho letto le analisi di esperti e professori, non ho mai smesso di ascoltare le discussioni di quanti non sono mai entrati nelle aule universitarie. Da queste discussioni ho imparato che la politica, dopo tutto, è una questione molto semplice: possiamo mangiare o no? Possiamo educare i nostri figli o no? Possiamo respirare aria pulita o no? E in caso negativo, perché? Mi sembra che nelle strade ci sia la risposta a questo perché. Gli egiziani, da millenni oppressi da governi che usano il pugno di ferro, temono senz’altro l’oppressione, ma allo stesso tempo hanno sviluppato un forte senso dell’umorismo, che si traduce nella capacità di farsi beffe della stupidità di chi governa. In questo modo sono riusciti a stabilire una distanza tra loro e il potere. E solo la distanza porta alla comprensione.
Il protagonista del racconto «Quando Mubarak va a passeggio» è un tassista «che all’inizio aveva adorato il Cairo, poi l’aveva amata, poi aveva cominciato a provare nei suoi confronti sentimenti contrastanti. Poi: l’aveva odiata e adesso ne sente ripugnanza». Nel suo caso, quali sentimenti la legano al Cairo?
Sono nato negli anni Sessanta, e posso assicurarle che da allora ho assistito con i miei occhi a un degrado progressivo e costante, che ha investito ogni aspetto della vita della città. Tuttavia, rimane una città estremamente forte, dotata di risorse inaspettate. Dopo tutto nessuno può nascondere che si tratti di un museo a cielo aperto, che raccoglie testimonianze architettoniche risalenti ad almeno seimila anni fa e che attraversano il periodo copto, islamico, moderno e via dicendo. A fronte di questo straordinario aspetto storico-architettonico rimane una città in cui metà della popolazione vive in condizioni di emergenza, senza i servizi essenziali. E gli abitanti continuano a crescere: nel 1900 erano circa seicentomila, nel 1950 due milioni e mezzo. Oggi siamo diciotto milioni, e arriveremo presto a venti. Si può immaginare dove andremo a finire, con il governo che ci ritroviamo.
L’«Angelo nero», protagonista dell’ultimo racconto, un tassista venuto da Assuan, sembra trovare la propria, personale, felicità nella cura che riserva al giardino di fronte casa. Vuol forse dire che in Egitto felicità e soddisfazione possono darsi solo nella sfera privata, mentre quella pubblica, soffocata dal potere, non offre opportunità di «realizzazione»?
È proprio così. Oggi gli egiziani non fanno parte di un progetto collettivo, e l’Egitto è un paese privo di progettualità sociale, economica, culturale. È come se vivessimo ciascuno nella propria isola. Dal momento che i ponti adibiti a collegare le isole tra di loro sono stati abbattuti, l’unica cosa che ci è concessa per sopravvivere più dignitosamente è rendere la nostra isola un po’ migliore. La gente si sforza di trovare una dimensione collettiva, un progetto sociale di cui possa sentirsi parte, ma si accorge presto che non esiste alcun progetto: veri partiti politici e movimenti sociali politicamente efficaci non ci sono. Tuttavia, negli ultimi due anni abbiamo assistito ad alcune manifestazioni dei lavoratori che hanno rappresentato un vero movimento sociale, e questo i deve farci sperare. Credo che continueranno anche in futuro.