Abbiamo avuto l’opportunità di incontrare l’autore de L’autistico e il piccione viaggiatore, tradotto in italiano e appena pubblicato da il Sirente (collana altriarabi), a Roma presso la libreria Griot di Trastevere, prima di una delle sue presentazioni romane.
Ingegnere elettronico di formazione Rodaan fugge dall’Iraq e, dopo una serie di peripezie arriva in Olanda dove si stabilisce. La sua vita è piuttosto avventurosa perché per scappare dalla guerra finisce, dopo una serie di viaggi, in Thailandia dove ottiene un passaporto falso olandese e tenta di raggiungere l’Australia che era il suo sogno. Viene però fermato perché senza visto e quindi “rientra in patria”, ovvero approda in Olanda dove resta nove anni in un campo profughi prima di riuscire a inserirsi nel Paese.
Qual è il tuo rapporto con la terra natale e quello con il paese adottivo? Entrambi infatti, a diverso titolo hanno per te un gusto un po’ amaro, conflittuale l’uno tanto da decidere di abbandonarlo, matrigna all’inizio l’altro.
«L’Iraq non è un Paese per vivere ma per morire che offre solo la guerra. Dopo la laurea per non entrare nell’esercito di Saddam Hussein me ne sono andato. Quando sono arrivato in Olanda ho avuto subito la sensazione di una terra difficile riguardo all’accoglienza perché il Paese ha poco spazio, ha conquistato la terra metro per metro a fatica essendo sotto il livello del mare e non può permettersi il lusso di ospitare rifugiati. D’altronde gli stessi olandesi aspettano anni per trovare una casa. Il problema dello spazio è determinante. Non sono stato accolto, è vero, ma lo capisco.»
Dal punto di vista letterario e culturale che cosa hai portato con te del tuo essere iracheno?
«La paura per l’Iraq è un Paese senza libertà. Non ho portato qualcosa alla cultura olandese, anzi ho cercato di liberarmi da questo senso di oppressione; non ho aggiunto nulla. E’ invece la letteratura olandese ad avermi arricchito dandomi soprattutto il senso di cosa significhi convivere nella diversità, pur rimanendo legati alle proprie origini.»
So che hai imparato l’olandese tanto da scrivere in questa lingua. Senti di appartenere alla cultura di questo Paese europeo?
«Appartengo ad un gruppo di scrittori che non sono nativi dell’Olanda ma hanno deciso di scrivere in olandese perché è un modo di entrare nella vita del Paese. E’ un modo di ringraziare chi mi ha dato un permesso di soggiorno e il mio primo libro in olandese è stato il nuovo passaporto. In effetti c’è una ragione antica. Fin da piccolo volevo scrivere in una lingua europea per conquistare la libertà e sono cresciuto con la letteratura europea. Per Dante Alighieri ho avuto una vera folgorazione. Nell’arabo, al contrario, c’è sempre questo senso di contenimento.»
Ma deriva dalla lingua, dal riferimento all’arabo classico come modello o dai governi dei paesi arabi?
«Sicuramente dalle politiche nazionali e dalle circostanze religiose. La lingua come la musica sono pure.»
Ti definiresti un autore “arabo” o mediorientale, sempre che abbia senso quest’etichetta?
«No, olandese anche perché parlo della vita quotidiana olandese e di tutte le tipicità di questo paese. Sento di appartenere grazie alla lingua a questa nuova nazionalità e sento in tal modo di restituire una certa ospitalità. Scrivere in olandese è come pagare le tasse al Paese dove vivi.»
Qual è il messaggio centrale del libro?
«La morale è che l’arte può aprire delle porte verso il mondo anche per chi non è in grado di camminare da solo e in questo senso la metafora dell’autismo è emblematica, nel senso che siamo spesso imprigionati in noi stessi, da noi stessi mentre dobbiamo renderci conto che siamo creati per condividere.»
Esiste un lettore “ideale” al quale hai pensato scrivendo questo testo?
«Per me il lettore “ideale” è chiunque abbia tempo e voglia di leggere.»
Com’è il tuo olandese, non in termini di qualità ma di timbro. Cosa è arrivato con il vento del deserto?
«Quando leggo l’olandese mi sento olandese ma quando parlo mi accorgo di tante lacune, soprattutto al telefono anche perché gli olandesi sono dei perfezionisti eppure sono molto accoglienti e tolleranti e si sono prestati con grande disponibilità nella revisione dei miei testi. Credo che per gli olandesi il mio olandese offra una potenzialità nuova alla lingua, in particolare quando leggo i miei testi ad alta voce, in special modo le poesie, perché qualcuno dice che ha qualche difficoltà a comprendermi…sembra arabo. E’ la musicalità, l’intonazione che mi porto dentro, della lingua materna, che conferisce alla lingua adottiva una sua peculiarità.»
Intervista di Ilaria Guidantoni