La Nuova Ecologia (Roberto Carvelli, 5 gennaio 2018)
Non sei mai solo
Dalle prigioni di Saddam a Berlino, passando per il tunnel vicino alla stazione Termini di Roma, dove ha “pernottato” per due settimane. A colloquio con Abbas Khider, uno degli scrittori più promettenti nel panorama letterario tedesco
Di origine irachena, Abbas Khider – nato a Baghdad nel 1973 – è uno scrittore tedesco, di lingua tedesca, con alle spalle una storia per noi oggi comune ed etichettabile come “del migrante”. E che porta sulle spalle la storia di un’impasse. Quella di chi comunque non è riuscito a vivere dove avrebbe dovuto o potuto. Questo prima di, con e dopo Saddam Hussein. Una figura che fa da spartiacque alla storia del suo Paese. La vita di Khider è fatta dai fotogrammi della vicenda geopolitica di questa nazione mediorientale: ha avuto tempo di conoscere la sua dittatura e le prigioni del regime, di vedere la prima guerra del Golfo, la fortuna di lasciare l’Iraq nel 1996, passando clandestinamente per vari Stati europei in cerca di rifugio fino al ’99, per stabilirsi definitivamente in Germania nel Duemila, salvo un breve ritorno in patria nel 2003, vissuto col terrore di essere eliminato in ogni circostanza.
«In quella occasione mi sono accorto di essere un uomo senza sogni e ho capito che dovevo crearmene di nuovi, quelli del Paese in cui ero arrivato». Così è tornato in Germania. Ora vive a Berlino, dove è integrato e molto conosciuto grazie al successo dei suoi libri, che lo hanno reso uno degli autori più promettenti della scena tedesca. La sua, in definitiva, è la storia dei migranti nella Germania ai tempi della Merkel, che ha anche incontrato e a cui ha espresso il suo punto di vista con il coraggio che gli riconosciamo in questo caldo pomeriggio di giugno a Roma, dove lo incontriamo, ospite del Goethe institut. Non si può non partire dalla Città eterna: «L’ultima volta che ci sono stato – racconta – era il 1993. Per due settimane ho “pernottato” in un tunnel vicino alla stazione Termini. Oggi sono qui in uno degli istituti di cultura più rappresentativi della città. E questo, più che un miracolo, mi sembra proprio una favola».
Abbas crede nei miracoli, quelli che danno il titolo al suo esordio letterario. Il suo romanzo, costituito da racconti tutti conclusi in sé, è l’annunciazione continua di una sorpresa. Lo sorprende la libertà in tutte le sue manifestazioni, e il suo stesso libro è dedicato “a quelli che appena prima di morire sognano le ali”. La libertà, sconosciuta, anche di poter guardare una donna. E le donne fanno spesso capolino nei suoi libri, suscitando desiderio e rimarcando un’irraggiungibilità.
Le donne ci sono nel tuo libro ma sembrano lontane.
Nel mio libro racconto la storia di più profughi in fuga ma nei centri di accoglienza non c’erano donne né c’erano durante la fuga. Per questo ci sono quasi solo uomini nel libro. In generale, i profughi vedono le donne come lontane. Sono un mito irraggiungibile. Nella realtà dei profughi le donne non esistono: non possono incontrarle e da loro sono visti come emarginati.
Ma ritorniamo all’Iraq della tua prigionia.
Ero un ragazzo giovane, avevo 17 anni durante il regime del partito Baʿth e poi all’epoca della dittatura di Saddam Hussein, che Onu, Stati Uniti e altri Paesi, bisogna ricordarlo, hanno sostenuto quando scese in guerra contro l’Iran. In quell’epoca di opposizione al regime mi riconoscevo e mi consideravo figlio di quella rivoluzione che provava a ribaltare quel sistema. Quello dei libri vietati e delle attività di volantinaggio. Ma ho pagato tutto a carissimo prezzo: sono stato richiuso per tre anni sotto terra con tre pezzi di pane e tre bicchieri d’acqua al giorno. Le carceri all’epoca di Saddam erano terribili. Ho subito vari elettroshock. Eppure ho imparato molto dai miei torturatori, ho imparato quella che Hannah Arendt chiamava la “banalità del male”. Gli aguzzini sono persone come noi. La loro violenza è il prodotto di una cultura che bisogna combattere, sono i sistemi che perpetrano questa violenza, non le persone.
Ciò non toglie il peso della violenza che subiscono sempre i prigionieri.
Lì capisci che un uomo non è un uomo. E io lì ho capito che o mi suicidavo o scappavo. Molti non capiscono che cosa i profughi hanno dovuto subire per decidere di intraprendere un viaggio così pericoloso come quello che porta sulle vostre coste centinaia di migliaia di persone.
In Germania il libro è uscito nel 2016, l’anno della apertura tedesca alla migrazione.
In Germania sono cambiate molte cose in questi ultimi anni. Dopo l’11 settembre 2001 le cose sono cambiate un po’ ovunque, in generale. La gente è diventata sospettosa. Interrogatori continui e surreali. Dopo le cose sono tornate nella normalità, poi di nuovo il sospetto verso gli arabi ai tempi dell’Isis e degli attentati in Europa. Gli eventi politici dettano il destino privato di una persona. Improvvisamente se un marocchino combina qualcosa, tutti i marocchini sono malvisti. All’estero non sei mai solo: porti con te tutta la cultura da cui provieni.
In più occasioni ti sei dichiarato contro la cultura del sospetto.
È così. Il vero problema sono sempre i giochi politici. Ad esempio, ai tempi di Saddam erano i palestinesi a svolgere la funzione di polizia politica del regime. Ma questa non può diventare un’equazione “palestinese uguale spia”. La storia è ciclica: qualcuno mi ha detto che molte ville sul lago di Como sono di bavaresi arricchitisi durante il nazismo. La storia è spesso disonorevole e senza bontà. Ma non sono d’accordo con chi afferma che è colpa di questa o quella etnia. Sono i sistemi, lo ripeto, i colpevoli, non le etnie.
Che cosa si può fare?
L’importante è cambiare la società, non seguire i politici e le loro manipolazioni. Serve essere gentili con i profughi perché sono esseri umani. Vendiamo le armi e poi ci meravigliamo della violenza diffusa: va fatto un cambiamento paradigmatico. In ogni caso, io sono uno scrittore non un politologo: cerco di analizzare le problematiche politiche da un punto di vista etico. Per questo non posso essere favorevole a un’accoglienza chirurgica tipo: solo i siriani… E gli altri? Nulla? Anche se sono iracheno non posso tollerare quanto succede agli afgani e agli africani.
Che cosa vuol dire essere profugo?
Non avere un luogo. Quando sei in fuga cerchi un luogo sicuro e questo è un dato anche statistico: solo il 6-7 % arriva in un luogo sicuro. Siccome lo sai, ti chiedi se avrai un futuro e perdi la tua sicurezza, perdi quella tranquillità interiore e sai che non tornerai mai come prima, che rimarrai schiavo delle tue paure.
Il tema ambientale è assente dai libri che raccontano il mondo arabo, perché?
È difficile parlare di ambiente in Paesi dove le persone vengono brutalmente uccise per strada e dove l’ambiente è già stato distrutto. Ad esempio, nel 2003, quando sono rientrato in Iraq, avevano costruito un grande centro commerciale protetto da soldati che perquisivano e da due carri armati, su uno c’era scritto: “Vietato fumare dentro il centro commerciale”. Questo, per dire, il modo surreale con cui viene percepito l’ambientalismo in Iraq.
In che relazione vedi cultura e religione?
Il termine cultura è il termine principale, la religione una subcultura. È sottoposta alla cultura generale. Quando si dice che cristianesimo ed ebraismo fanno parte della cultura europea è vero. Il problema è quando la religione diventa il termine principale da cui dipendono gli altri termini e la cultura diventa una subcultura: rischiamo di finire in quell’inferno che abbiamo conosciuto nel Medioevo o in quello in cui sono finiti alcuni Paesi arabi in questa epoca. Nel momento in cui la religione diventa la cultura dominante è come se si realizzasse, e si prefigurasse, una sorta di verità assoluta e che non ci fosse più la possibilità per le persone di esprimersi e pensare autonomamente.