| Mediterraneaonline | Domenica, 21 settembre 2008 | Cristina Giudice |
Presentato ad Alghero in prima nazionale il libro di Khaled Al Khamissi, un viaggio nella Cairo di oggi
È un vero e proprio viaggio all’interno della realtà egiziana attuale quello che si fa sfogliando le pagine di “Taxi”, il romanzo di Khaled Al Khamissi, presentato in anteprima in Italia ad Alghero all’interno del Festivalguer “Porto Mediterraneo”. Lo scrittore egiziano ha scelto la riviera del corallo per presentare quello che in Egitto è stato il caso editoriale dello scorso anno, arrivato all’ottava ristampa e a 35 mila copie vendute, in un paese dove già 3000 copie costituiscono un successo.
Al Khamissi racconta, in 58 storie brevi, messe insieme fra il 2005 e il 2006 parlando con i tassisti del Cairo, la vita quotidiana, le frustrazioni, le speranze e le amarezze di un popolo «oppresso e povero e senza possibilità di sopravvivenza – come lo ha descritto lui durante la presentazione – che in molti casi ha perso la speranza, ma non la voglia di scherzare, di ridere e di vivere».
“Taxi” è un libro all’apparenza leggero e godibile, grazie anche ad una scrittura semplice in cui, invece del pesante arabo letterario, domina la lingua parlata nei discorsi diretti fra il tassista e lo stesso autore, come in un siparietto teatrale ricco di espressioni gergali e battute ironiche. Proprio come il popolo che racconta però, il libro nasconde sotto questa apparenza di leggerezza e, a volte, di vera comicità, i moltissimi problemi di un paese che cerca la propria strada fra la voglia di adozione di uno stile di vita europeo (ancora oggi esclusivo appannaggio delle classi più ricche della società) e la restrizione delle libertà imposta dal governo, i bassi livelli di cultura e i notevoli problemi economici.
Al Khamissi rifiuta l’idea che lo sviluppo dell’Egitto sia impedito da fattori religiosi e guarda piuttosto a motivazioni politiche ed economiche, imputando anche all’Europa le sue responsabilità.
«Non si può parlare della cultura egiziana identificandola solo con quella musulmana – ha ricordato Al Khamissi – perché in Egitto ci sono anche molti cristiani, che abitavano nel paese ancora prima dell’arrivo dei musulmani, e una parte di laici. Il problema è una difficile situazione geopolitica – ha continuato lo scrittore – complicatasi dopo la guerra del ’73 contro Israele, che portò a nuovi accordi con gli americani e ad un’agenda politica che prevedeva la lotta contro il socialismo e gli elementi laici in Egitto. Per realizzarla gli americani stessi finanziarono gruppi estremisti islamici ed è noto, per esempio, che nell’università di Asiut, tra il ’76 e il ’78, un gruppo di studenti girava armato. E fu proprio quel gruppo ad uccidere poi il presidente Sadat. La successiva impennata dei prezzi del petrolio diede un fortissimo potere economico all’Arabia Saudita che iniziò, accanto agli Stati Uniti, a finanziare gruppi estremisti in tutto il mondo».
Se è dunque giusto affermare che non è l’Islam il responsabile dell’arretratezza del paese, la colpa è probabilmente da imputare ad un sistema scolastico fallimentare, spesso ingiusto, che non combatte l’ignoranza dilagante e che non è visto come un mezzo per potersi migliorare.
«Molte delle speranze che il popolo egiziano nutriva sono morte – ha detto Al Khamissi – e nessuno fa affidamento sul sistema di istruzione: nemmeno i genitori pensano che possa essere utile a migliorare la vita dei figli. Negli anni ’50 e ’60 ci fu un momento di speranza di riscatto dal passato e anche i contadini guardavano al loro raccolto con ottimismo, perché due ettari di terreno coltivato a cotone erano sufficienti per sostenere una famiglia per un anno. Oggi non bastano più. Nemmeno con Sadat la speranza di miglioramento era legata all’istruzione, ma al business e alla creazione di nuovi esercizi commerciali aperti all’occidente, il cui monopolio però è andato a favore di pochissimi lasciando la maggioranza della popolazione nella fame. Anche la speranza nazionale del mondo arabo di cacciare Israele e i colonizzatori inglesi è fallita e oggi dobbiamo accettare come un dato di fatto la colonizzazione degli americani».
Proprio come farebbe un qualsiasi cittadino egiziano, “Taxi” racconta questa difficile realtà col sorriso e una punta d’ironia: dalla giovane costretta a togliersi il niqab (il vestito nero che copre il corpo completamente lasciando scoperti solo gli occhi) a bordo del taxi per poter andare a lavorare al tassista che propone di provare i Fratelli musulmani, giusto per cambiare, come alternativa a Mubarak o all’altro che accusa il raìs di preoccuparsi solo dei ricchi del paese. Da chi racconta le peripezie affrontate e le bustarelle versate agli ufficiali di polizia per il rinnovo della licenza a chi, pur appassionato di film, confessa di non andare al cinema da 20 anni perché non può permettersi il biglietto. E poi un altro che, completamente sfiduciato dal sistema scolastico, ha ritirato i figli da scuola perché «non stavano imparando niente».
Le storie di questo libro danno voce per la prima volta ad una categoria umana ai margini della società egiziana, spesso invisibile. Il tassista è solo colui che guida, portandoti da un posto all’altro di questa enorme metropoli di circa 18 milioni di persone con la sua macchina scassata, che a volte non si sa come faccia a camminare ancora. Chi però abbia vissuto al Cairo abbastanza sa bene che una conversazione con i tassisti a volte vale molto più della lettura di un libro per capire questo paese. Commentano la partita della sera prima, funestata dalla partecipazione del presidente in tribuna (che, a quanto pare, porta davvero sfortuna); ricordano quando con 25 piastre (0,03 cent) potevi comprarci il pane; condannano le stragi compiute in Iraq e Palestina contro i loro “fratelli” e lo strapotere degli Usa nel mondo. Se poi gli dici di essere italiano, viene fuori qualche parente che da anni vive nel nostro paese e ti dicono tutti che sognano di sposare un’italiana e lasciare l’Egitto perché l’Italia è un paese meraviglioso dove si trova lavoro. Qualcuno va sul personale e parla dei figli che sono riusciti a laurearsi nonostante tutto, mentre un altro racconta di essere appena uscito dal suo lavoro mattutino in un’azienda privata, cosa molto comune fra i tassisti cairoti che, per la maggior parte, arrotondano guidando i magri stipendi dell’amministrazione statale e di aziende pubbliche o private.
Quella dei tassisti è forse la categoria umana che meglio rispecchia da sola la molteplicità della società cairota e il merito di Al Khamissi sta nell’averle dato voce per la prima volta.
«Bisogna leggere chi scrive della realtà di questi paesi e della loro cultura», ha esortato Al Khamissi, evidenziando quella che, secondo lui, è la responsabilità occidentale nell’aver creato incomprensioni, fraintendimenti e stereotipi rispetto al mondo arabo. «C’è un forte bisogno di comprensione e conoscenza reciproca – ha continuato lo scrittore – mentre la stampa europea, in particolare quella francese, inglese e americana, scrive di una realtà creata da e per l’immaginario americano. Il signor Bush ha nella sua agenda un progetto politico ed economico chiaramente militare in cui purtroppo i giornalisti lo seguono».
In risposta a questa informazione di parte l’opera di Al Khamissi va letta proprio per la sua capacità di raccontare dall’interno e in modo semplice e diretto la reale vita quotidiana del Cairo.