| Meltin’Pot | Lunedì 4 maggio 2009 | Luigia Bersani |
ROMA – Viene presentato dalla casa editrice “il Sirente” il nuovo romanzo di Nawal al-Sa’dawi, scrittrice e psichiatra egiziana, vincitrice di numerosi premi letterari, che da tempo dedica la sua attenzione ai diritti delle donne ed alla democratizzazione nel mondo arabo. “L’amore ai tempi del petrolio”, titolo del romanzo, narra, con uno stile chiaramente onirico e introspettivo, le vicende di una donna senza nome, in un luogo, appartenente al non meglio identificato mondo arabo, senza tempo e senza denominazione geografica. L’intento della scrittrice è indubbiamente quello di descrivere con orrore e con speranza la condizione femminile appartenente alla sua cultura natia, che ha continuato nel corso della sua storia ad affliggerla quando ha subito insieme al marito un processo intentato da fondamentalisti religiosi per il loro matrimonio e le loro idee, quando a causa del suo impegno sociale e delle sue denunce fu costretta a lasciare il suo paese. Ci si muove nel romanzo, attraverso le vicende della protagonista, in un cammino inconscio che richiama alcuni archetipi culturali la cui scoperta diventa parte integrante e imprescindibile della sfida femminista che l’autrice intraprende. Un elemento emblematico di tale percorso si trova nella ricerca della protagonista della storia di prove che sostengano la sua tesi scientifica della falsificazione delle immagini delle divinità, mediante la trasformazione delle dee in dei, artifizio che sarebbe stato utilizzato per negare l’esistenza, anche nelle più antiche tradizioni, di un ruolo divino delle donne, negando, però, allo stesso tempo, anche il riconoscimento della cultura teologica da cui lo stesso popolo proviene. Negando, dunque, mettendo a tacere una memoria archetipica ancestrale, quindi anche il concetto di cultura in genere. L’autrice narra di un paese in cui le donne sono punite se sorprese con un libro o con una penna in mano, un paese in cui l’autorità suprema, Sua Maestà, intorno alla quale ruota tutto quel cosmo privo di nome nel quale si svolgono i fatti, è completamente analfabeta in segno di emulazione dei profeti, analfabeti anch’essi. L’autrice narra di una realtà in cui regna l’appiattimento intellettuale, in cui una donna curiosa, un’archeologa, una paladina della libertà e della verità, come è descritta la protagonista, viene accusata dalle altre donne di essere schizofrenica, di soffrire di un grave distacco dalla realtà, di essere una folle in quanto rifiuta e non capisce la condizione di schiavismo e reificazione in cui lei e le altre vengono ridotte. Il petrolio, quale oscura entità del sottosuolo, sembra avere la meglio sui corpi e sulle menti di quelle donne costrette a trasportarlo in pesanti secchi posati sulle loro teste. Il petrolio sembra costituire il filo conduttore di un incubo comune, mentre l’archeologa, stremata nel fisico e nella dignità, continua a scavare con il suo scalpello, nello stesso terreno da cui sgorga il petrolio, nella disperata ricerca delle sue dee, quasi rappresentassero il suo riscatto, la sua libertà, la verità. E’ questo un romanzo che, descrivendo situazioni probabilmente irreali o comunque esasperate proprio dai toni visionari con cui vengono delineate, è volto a denunciare la realtà che spesso si trova a vivere la donna in alcune civiltà autoritarie, del mondo arabo in questo caso ma comuni a molte altre civiltà passate e presenti appartenenti anche a culture diverse da quella araba, realtà spesso umilianti, non solo per la netta ed iniqua disparità di diritti che vengono garantiti agli uomini e alle donne, ma soprattutto per l’accettazione inerte da parte delle donne di tale situazione. In lingua araba le parole “sottomissione” e “ubbidienza” si usano anche per indicare la casa coniugale, o casa del marito, nell’espressione “casa dell’ubbidienza”, beit al-taa’at, per il diritto islamico. Nawal al-Sa’dawi, nel ripercorrere vissuti tratti dalle sue origini egiziane, infatti numerosi richiami a profonde rimembranze infantili della protagonista confermano una sorta di identificazione di questa con l’autrice del romanzo, descrive con terrore non tanto la vita coniugale cui sono destinate le donne, che come in ogni relazione umana può essere felice o infelice, quanto la negazione per le donne del diritto di scegliere di potersi autodeterminare come donne e non solo come cuoche, serve o mezzi di procreazione. Ciò che emerge dal romanzo, oltre all’enorme difficoltà che il mondo femminile spesso incontra nello Scegliere, verbo banale ma che comprende in sé la base dei più comunemente accettati diritti umani, è la manifesta non necessità di farlo che infetta le menti delle donne descritte nella narrazione che, assoggettate da una cultura secolare schiacciante, emblematicamente guardano con disgusto e compassione la protagonista mentre pronuncia con ingenuità le parole “Io ho altri scopi”.