“In Francia il dialogo è morto”
Identità, religione, antisemitismo, islamofobia. Colloquio con Saphia Azzeddine, scrittrice franco-marocchina, alla vigilia dell’uscita del suo nuovo romanzo, “Confidences à Allah”. L’occasione per riflettere su alcuni temi che attraversano la società contemporanea, tra pregiudizi, cliché e conflitti generazionali
di Emanuele Coen (24 aprile 2019)
Jbara è giovane, povera e oppressa, rifiutata dalla famiglia e dal padre ignorante e brutale. Maltrattata dagli uomini scopre la propria bellezza, si prostituisce, finisce in prigione, sogna di fuggire lontano. Allah diventa il suo unico confidente, il solo in grado di comprendere le sue frustrazioni, la sua rabbia incontenibile. Jbara è una donna pastore, vive sulle montagne del Maghreb, ma la sua storia assomiglia a quella di tante altre donne, dal massiccio dell’Atlante alla periferia di Parigi.
Una vicenda universale, raccontata attraverso un vibrante monologo: “Confidences à Allah”, il nuovo libro di Saphia Azzeddine(uscirà in Francia il 24 aprile per Stock) è la nuova edizione ampliata del romanzo d’esordio (2008) della scrittrice, regista e attrice franco-marocchina, grande successo poi diventato pièce teatrale e graphic novel. «Qualche tempo fa ho riletto il mio libro. Ho sempre amato la mia eroina, la sua verve, la sua violenza, il suo senso dell’umorismo. Merita di più, ho pensato. Non di meglio ma di più. Forse all’epoca l’argomento del libro aveva preso il sopravvento sul libro stesso. Riscriverlo è stato un modo per riequilibrare la situazione», dice Azzeddine, 39 anni, nel salotto della sua casa parigina.
La protagonista di “Confidences à Allah” abita in Maghreb o in Francia?
«Jbara abita in un Paese musulmano, probabilmente in Maghreb, ma non ho voluto indicare un luogo preciso affinché la storia avesse un valore universale. Una donna precaria che abita alle porte di Parigi potrebbe vivere la stessa situazione, gli stessi stati d’animo. Era sui giornali qualche tempo fa: ragazze costrette a offrire prestazioni sessuali in cambio di una stanza o un piccolo appartamento. È rassicurante pensare il Maghreb come luogo lontano, ma prostituzione e miseria hanno lo stesso odore a tutte le latitudini, nella banlieue di Parigi e in Marocco».
La protagonista di un altro suo romanzo, “La Mecca-Phuket” (uscito in Italia per l’editrice Il Sirente), decide di riappropriarsi della religione sovvertendo le regole. Nella comunità musulmana francese esiste un conflitto tra generazioni?
«Certo. Per certi aspetti è triste: spesso i giovani sono molto meno aperti dei loro genitori. Molte ragazze portano il velo, mentre le loro madri non l’hanno mai portato. Una sorta di ripiegamento identitario, se non addirittura religioso, che era stato del tutto superato. Non è il caso della protagonista di “La Mecca-Phuket”, Fairouz, una giovane musulmana che invece di andare a chiedere perdono a Allah alla Mecca decide di ringraziarlo a Phuket, l’isola thailandese. Sta qui il punto, raccontato in chiave ironica, comica: la differenza tra temere Dio o ringraziarlo. Religione non è sinonimo di privazione ma vuol dire rendere omaggio a Dio e, per farlo, recarsi in un bel posto, volersi bene. Credo che in questo consista il coraggio e la modernità del mio libro».
Quale tipo di educazione ha ricevuto?
«Siamo musulmani, ma mio padre ha sempre detto: non spenderò un franco per la religione se posso investirlo nella formazione dei miei figli. Sono cresciuta con questa visione del mondo: sono contenta delle mie origini, ma non in maniera cieca».
Come definirebbe la sua identità?
«È una questione che non mi sono mai posta e rifiuto di pormi. Già da tempo Francia il tema dell’identità è diventato di moda, generando ogni giorno una nuova polemica. Adorano domandarti: “Si sente prima francese o prima musulmana?”. Non ho opinioni al riguardo: mi adatto alle leggi e alle consuetudini del Paese in cui abito, ovunque si trovi, il resto riguarda la sfera personale. Non entro mai nel dibattito religioso o identitario, credo che in Francia e nel resto d’Europa questo tema abbia ormai un peso eccessivo. Sono a favore della laicità dello Stato».
L’arroccamento identitario può essere la reazione all’ostilità diffusa. In Francia si moltiplicano gli episodi di antisemitismo. Cosa ne pensa?
«L’antisemitismo è un tema importante ma non nasce nella banlieue. Esistono leggi contro l’antisemitismo, l’islamofobia, il razzismo. La cosa più preoccupante, in ogni caso, è l’assenza di dialogo. Chi non vuole alzarsi in piedi per osservare un minuto di silenzio per un ebreo ucciso, o chi rifiuta di cantare la Marsigliese viene escluso, additato al pubblico ludibrio. Io invece voglio capire perché ha compiuto un simile gesto. In Francia, invece, chi vuole capire viene stigmatizzato come se avallasse certi comportamenti. Oggi viviamo nella società delle emozioni, anzi delle iper-emozioni, che annichiliscono la ragione. Non voglio limitarmi al piano emotivo ma riflettere razionalmente, dare la parola a chi non la pensa come me. In Francia purtroppo non c’è più dialogo, non interessa a nessuno ascoltare l’altro».