| C magazine | Lunedì, 31 marzo 2014 | Agnese Trocchi |
“Agli inviti dei pochi amici critici rispondeva citando lo scrittore ungherese Béla Hamvas: “In casa impari a conoscere il mondo, mentre in viaggio impari a conoscere te stesso.” A quasi cinquantasette anni, Khaled al-Hamràny non aveva mai lasciato la sua citta.” (Hassan Blasim, Il Mercato delle Storie in Il Matto di Piazza della Libertà, il Sirente ed.)
Se Khaled al-Hamràny, personaggio del racconto Il Mercato delle Storie, non si è mai mosso dalla piazza del mercato della sua città, lo stesso non si può dire del suo autore, lo scrittore iracheno Hassan Blasim.
Hassan Blasim, che oggi ha poco più di 40 anni, è fuggito dal proprio paese natale, l’Iraq in seguito alla realizzazione del film The Wounded Camera e nel 2004 è giunto come rifugiato in Finlandia, dove tutt’ora vive.
Vincitore nel 2012 del premio Writers in Translation del Pen International grazie alla raccolta di storie brevi tradotta in inglese da Jonathan Wright con il titolo The Iraqi Christ, Hassan Blasim ha un solo libro tradotto in italiano: Il Matto di Piazza della Libertà.
Il Matto di Piazza della Libertà è una raccolta di racconti edita in Italia da il Sirente nel 2012. Una mostra delle atrocità narrate con l’occhio lucido e visionario di chi sa che al di là delle differenze culturali, religiose, razziali, siamo tutti sulla stessa barca in un viaggio il cui fine non è altro che il viaggio stesso.
Racconti dell’assurdo dalle tinte noir ed ironiche che descrivono un mondo onirico e reale al tempo stesso. Il sogno, il viaggio, la violenza e gli orrori della guerra sono i temi portanti dei racconti di Blasim che parlano di persone comuni che il più delle volte, come nel caso de il protagonista di Il Mercato delle Storie, non si sono mai mossi dal loro quartiere o che, come Carlos Fuentes, emigrato iracheno in Olanda nel racconto Gli Incubi di Carlos Fuentes, non sono mai riusciti a liberarsi dai fantasmi del loro “rione”.
La mia intervista con Hassan Blasim è avvenuta via e-mail grazie alla traduttrice in italiano di Il Matto di Piazza della Libertà, Barbara Teresi.
Dove sei nato? Che ricordi hai del quartiere dove sei cresciuto e quando lo hai lasciato?
Sono nato a Baghdad e all’età di cinque anni mi sono trasferito con la mia famiglia nella città di Kirkuk. Quando è scoppiata la Guerra Iran – Iraq, avevo sei anni e ho iniziato le elementari. Kirkuk era una città in tumulto per via della resistenza curda oltre che della guerra. A scuola, nell’ora di educazione artistica, ci facevano disegnare carri armati e soldati che sparavano a Khomeyni e alla sua barba. E non ci insegnavano i nomi dei fiori che sbocciavano intorno a noi, in città. Fiori selvatici di diverse forme e colori. L’insegnante di matematica frustava gli alunni con la cintura dei pantaloni. E mio padre faceva violenza a mia madre in modo sistematico e per le ragioni più sciocche. Assistevamo alle esecuzioni capitali. Ne ho parlato in uno dei miei racconti. C’era una piazza polverosa accanto al quartiere in cui abitavamo. Noi ci giocavamo a calcio. In quella piazza giustiziavano, sotto gli occhi di tutti, i soldati disertori e i partigiani della resistenza curda. E, per spaventare tutti gli altri, lasciavano lì i pali di legno su cui avevano legato i condannati a morte. Noi bambini li prendevamo per farci le porte del nostro campo di calcio.
In un rione o vicinato spesso le differenze convivono all’interno della stessa comunità. Pensi che la società irachena e quella europea stiano perdendo il tesoro della diversità culturale?
La città di Kirkuk era caratterizzata da una straordinaria multietnicità: turkmeni, curdi, arabi, assiri cristiani. Purtroppo oggi i politici corrotti non hanno abbastanza immaginazione né volontà per conservare questa ricca, incredibile eterogeneità. È vero che il dittatore ha creato alla città moltissimi problemi, ma è pur vero che i politici iracheni oggi sono impegnati a rubare gli ingenti capitali del petrolio e alimentano le ostilità tra gruppi etnici e religiosi per il proprio tornaconto personale e per via di una limitata coscienza politica.
La multiculturalità è l’unica opzione che abbiamo per poter vivere in pace in questo mondo, tanto più perché possediamo un patrimonio umano condiviso . Bisognerebbe esercitare una maggiore pressione sui politici e su chi ha potere decisionale, ovunque nel mondo, per consolidare il principio di multiculturalità nei diversi settori dello sviluppo e per mezzo di politiche sociali.
In ogni quartiere di solito c’è “il matto del villaggio”. Il Matto è una figura che ritorna di frequente nei tuoi racconti, spesso ne è addirittura il protagonista. Cosa rappresenta il Matto per te?
Gran parte della violenza in Iraq è follia, isteria delle generazioni vissute sotto il pugno duro del dittatore. E oggi, purtroppo, una nuova generazione sta crescendo all’insegna delle milizie religiose e del terrorismo. In alcuni miei racconti la follia è forse la sola idea in grado di muoversi agilmente nella terrificante realtà dell’odierno Iraq: una cella di dolore e sangue.
Cosa succede ad una persona quando viene strappata dalle proprie radici?
A mio parere lo sradicamento è il miglior regalo che si possa fare alla conoscenza e alla riscoperta di sé.
Che importanza ha il linguaggio di strada nella tua scrittura?
Sulla questione della diglossia nei paesi arabi mi sono espresso in passato in più di un’occasione. Io stesso continuo a scrivere in arabo classico, ma cerco di epurarlo dalla retorica, dai simbolismi e dal gergo giornalistico e di usare molto l’arabo iracheno nei dialoghi. E nei miei prossimi scritti cercherò di usarlo ancora di più.
Del resto tutti i bambini del mondo, quando vanno a scuola, hanno diritto a imparare la loro lingua materna. Noi invece andiamo a scuola e ci scontriamo con la lingua araba, che ci appare come una lingua straniera: le parole “casa”, “tavolo” o “lampada” non sono le stesse che usiamo a casa, e la maggior parte delle parole suonano estranee alle orecchie di un bambino delle elementari. L’arabo classico è una delle prigioni del mondo arabo. Tu impari qualcosa che appartiene al passato, mentre le tue emozioni e la tua immaginazione si muovono nel contesto della lingua parlata, quella usata oggi. Bisognerebbe pensare seriamente a rinnovare la lingua araba.
Che relazione c’è tra il linguaggio in cui scrivi e quello in cui sogni?
È un perenne conflitto. Ma nonostante tutto è possibile fare in modo che la lingua letteraria obbedisca all’immaginazione e ai sogni.
I sogni sono sempre una parte molto importante dei tuoi racconti, molti dei tuoi personaggi vivono contemporaneamente nel mondo reale e nel mondo onirico. Pensi che ci sia qualcosa di simile ad un “vicinato”, ad un rione, anche nel mondo onirico? Uno spazio che condividiamo con gli altri?
Sì, è vero, do molta importanza ai sogni, perché il sogno è un terreno fertile, misterioso e stupefacente su cui ancora sappiamo poco. Il mondo continua senz’altro a indagare a fondo nei dettagli del sogno, ma non è ancora arrivato a captarne l’essenza segreta. La gente sogna ovunque e questa è una caratteristica meravigliosa che ci contraddistingue in quanto esseri umani. Credo che nel mio prossimo romanzo tratterò il tema del sogno dal mio personale punto di vista, cosa di cui non posso parlarvi qui così di fretta.
Può un quartiere contenere l’intero universo di storie possibili come spiega Khaled_al_Hamràni in Il Mercato delle storie?
A dire il vero, l’idea de lI mercato delle storie mi è venuta dopo aver letto più di un’intervista a un autore iracheno che sostiene che scrivere dell’Iraq oggi sia molto difficile perché la spaventosa realtà del Paese “supera” ciò che su di essa possiamo scrivere. Secondo me questa è un’assurdità. La letteratura è una sfida. E oltretutto non ha a che fare soltanto con gli avvenimenti del presente neppure quando affronta temi d’attualità. La violenza in Iraq, per esempio, è un’estensione della violenza che l’uomo esercita dai tempi delle caverne e fino ai nostri giorni, con i missili intelligenti americani. Analizzare la realtà in questo modo è tra i compiti della letteratura.
Il racconto Il mercato delle storie è uno dei modi possibili per sfidare la violenza. Persino il più semplice particolare di un mercato popolare può diventare una storia universale ed esprimere le nostre inquietudini, le nostre gioie, il nostro essere smarriti in questo mondo.
Intervista di Agnese Trocchi – Traduzione dall’arabo di Barbara Teresi