| L’indice dei libri del mese | Aprile 2011 | Maria Elena Ingianni |
Prendete un pezzo di formaggio, se è scadente non importa, ciò che conta è l’odore, che deve essere intenso. Non vi serve per calmare frettolosamente una fame improvvisa: il vostro scopo è quello di catturare un topolino che avete visto nascondersi dietro la credenza della cucina. A ben pensarci voi non lo temete su serio, quel piccolo roditore e, in fondo, neppure vi dà così fastidio. Che cosa provate, dunque, a cattura riuscita? Soddisfazione, eccitazione, disgusto? E se, diversamente, foste voi il topo in trappola? Se risvegliandovi da un brutto sogno notaste che il vostro corpo è ricoperto di un pelo irto e grigio e che il mondo che avete davanti, a lato e dietro è fatto solo di sbarrette di metallo? Questa è la condizione in cui si sente di vivere Shihab, il protagonista di Metro, il graphic novel egiziano che è costato all’autore, Magdy El Shafee, un processo conclusosi con una condanna alla distruzione di tutte le copie, nonché al pagamento di un’ammenda.
Attraverso Shihab, giovane software designer che per pagare un debito organizza una rapina in bance, Magdy, contestatore del regime di Mubarak, denuncia il clima di corruzione della politica egiziana senza tacere i nomi degli oppositori, e racconta i sentimenti che animano i giovani egiziani, trasformandoli in immagini. Non è più soltanto la parola a farsi protesta: il tratto sapiente e sconsiderato dell’autore squarcia il velo di Maya, dietro il quale si nasconde la tirannia. Il lettore vede i volti degli accusati, li riconosce, identificando a sua volta se stesso nell’oppresso, che parla e, quindi, legge in ammeya, ovvero nel dialetto. Agnizione che diventa conoscenza e, di qui, moto di ribellione. Il filo di Arianna su cui si muove la storia di Shihab è la linea rossa della metro del Cairo. Si attraversa il traffico della “umm al-Dumnia”, la madre del mondo, come la chiamano affettuosamente gli egiziani, si entra nelle botteghe, si conversa con il popolo, ci si scontra con lo sguardo cieco, il sorriso dei vecchi e la rassegnazione al fatto che l’assicurazione sanitaria per gli ultimi non esiste. Shihab è un ragazzo in trappola, confinato a sopravvivere dentro le mura del popolo suddito, in una condizione di metaforica prigionia sociale che descrive con queste parole: “Per te il pezzo di formaggio è un telefonino nuovo. Per il ricco è una bella sventola e la bella sventola corre dietro a una BMW ultimo medello. Il pezzo di formaggio cresce fino a diventare un castello a Sharm el-Sheikh o una yacht ormeggiato nel porto di Marina (…) Quello che conta è che tutti restino occupati a rincorrere il loro formaggio senza pensare a nient’altro”.
Accattivante, ingegnosa, dissacrante, sporca e nervosa, la mano di Magdy El Shafee freme sulla pagina, nell’impeto proprio di una generazione che non vuole cedere i propri sogni all’arrendevolezza a cui è stata educata. Se fino a due mesi fa questo graphic novel sembrava esprimere l’urlo isolato di un ribelle, adesso sappiamo che i topi non inseguono più solo il pezzo di formaggio, ma sanno anche salire sulla metro e non scendere alla fermata Mubarak.