di Jamie O’Meara (da locals@large, dicembre 2002)
Alla mia sinistra, l’area del dietro le quinte, una pesante porta di legno che si apre su niente di meno che un salto a picco nelle rovine sgretolate di cemento della metà posteriore dell’edificio. Dall’altro lato del teatro in legno c’è una vecchia finestra. Stando di fronte al monitor, si può guardare giù nel fangoso parcheggio. No, aspetta, non è un parcheggio – è una festa di polli selvaggi che si beccano. Ho un breve momento di dissociazione.
E’ la primavera del 1995, e un paio di anni prima ho attraversato l’ex confine tra Germania est e Repubblica Ceca con i miei compagni di band di Montréal, attraversando regioni di miniere di carbone inquinate come mai visto. La cittadina dove stiamo per suonare ha fama di essere uno dei luoghi più disgraziati della terra, anche peggio della borsa del calzino di Jimmy (batterista, naturalmente). Dopo aver localizzato il locale – siamo proprio l’unica band che conosco a essersi persa in una città con due sole strade polverose – discutemmo se restare nel furgone dove, sebbene l’aria fosse finita, era respirabile, oppure stare fuori dove proprio non lo era. Nella sala in cui dovevamo suonare quella sera c’era la stanza principale e, un po’ distante, un piccolo bar quadrato con centinaia di teste di animali sistemate sulle pareti. Sembravano topi con le corna, con un’espressione di sorpresa e rabbia irrigidita sulle loro piccole facce puntute. Come da accordi ci fu servita la cena bollente che precedeva lo spettacolo, mentre guardavano Beverly Hills 90210 doppiato in ceco, su una vecchia tv nel bar. La vita è feroce, ma buona…
Leggere l’ultimo libro di Norman Nawrocki, L’anarchico e il diavolo fanno cabaret, mi ha riportato a ricordi che non avevo mai pensato di avere, come quello di cui sopra. Il musicista di Montréal (Nawrocki, insieme al co-cospiratore Sylvain Cŏté, è la guida di Rhythm Activism, che si definisce una “orchestra di notizie ribelli”), autore (ha quattro libri al suo attivo) e attivista politico è stato sulla strada per quasi diciotto anni, in tour con gruppi musicali, cabaret e spettacoli di poesia. L’anarchico e il diavolo fanno cabaret dà la cronaca dell’ultima scorreria di Rhythm Activism attraverso l’Europa (dove sono stati sette volte), un viaggio tra nove paesi che li ha visti portare a un gran numero di fan il loro amalgama politicizzato di musica tradizionale dell’est Europa e di punk occidentale, da anarchici stagionati a vegetariani di sinistra, da zingari sradicati a curiosi. E ai loro bambini. Intercalati ai racconti di strada vi sono lavori di breve narrativa (così come lettere cronologicamente distanziate da uno “zio perduto” che può essere inventato o no, Nawrocki non lo specifica) che germogliano da persone e personaggi che ha incontrato nel tour.
Come ci si potrebbe aspettare da una persona del calore di Nawrocki la prosa, popolata da espressioni radicali e linguaggio da attivisti – qualcosa che inevitabilmente è legato all’argomento – è terra terra e senza pretese. Quando Nawrocki lavora sull’esperienza di prima persona, è un narratore capace e accattivante, che costruisce immagini tridimensionali degli spazi da lui visitati. E come Nawrocki sottolinea, noi Nord-Americani abbiamo molto da imparare dagli europei sul sostegno agli artisti.
Nawrocki è affilato come un rasoio quando passa dal pittoresco al filosofico, come fa nel suo divertente discorso sugli “appassionati di musica” (“chi consuma musica… ma raramente dà spazio nella propria esistenza a qualcosa di politico”) contro i “politici” (hanno poco tempo per il divertimento, per la musica, o qualsiasi altra arte, anche se questa è ‘politica’. Quando ne hanno, è per qualcosa che tende a essere convenzionale… Date loro libri politici. Anche all’ora di andare a letto. E non provate a essere divertenti”). Divertente, per quanto possibilmente involontario, è il tema ricorrente dei piccoli furti, che si tratti di cioccolato – oltre alla vodka, il cioccolato sembra essere la droga preferita di Rhythm Activism – a una stazione di benzina tedesca, o di una colazione in un albergo dell’est Europa. (Alzate le vostre bandiere nere e marciate, compagni! Con gli oppressori capitalisti delle McCorporazioni sconfitti, saremo liberi di rubare tutto quello che vogliamo. Meno godibile, tuttavia, è la confusione generata dove il processo creativo di Nawrocki si sovrappone al diario del tour di Rhythm Activism. Per ragioni sconosciute Nawrocki dà una descrizione romanzata dei cinque membri della band, cambiando i loro nomi e i loro tratti caratteristici. Il risultato è che quando all’inizio ce li introduce, tendiamo a considerarli di meno perché sembrano meno reali. Le storie di strada perdono il loro lustro se non si può essere sicuri che le persone al centro della storia esistono. Il grande ex punk GBB è davvero il guidatore folle del furgone in Ungheria? O forse era Martine, la ragazza sexy dai capelli corvini del merchandise? O forse non è mai accaduto…
A complicare ulteriormente le cose, la ruvida ipperrealtà del diario del tour contrasta visibilmente con le brevi vignette di fantasia, che sono spesso melodrammatiche e indebolite da clichè, e con le lettere di un falso zio polacco che Nawrocki sostiene di star cercando in Europa. O almeno io credo che sia uno zio posticcio: su questo ho cambiato idea un paio di volte, ma alla fine l’individuo sembra troppo eccentrico per essere credibile, proprio come i personaggi idealizzati delle storie brevi. E se fosse stato reale, Nawrocki avrebbe scatenato un casino per trovarlo, come invece non ha fatto.
Detto questo, l’autore raggiunge il massimo nel capitolo “Imparando a insultare”, una descrizione degli spostamenti della band in Ungheria, incluso un incontro con un giornalista musicale ubriaco e con uno studente di medicina razzista, narrati in modo vivido e avvincente. In questo Nawrocy è inattaccabile e mi fa voler conoscere di più su di lui, sugli altri tour, sui cambiamenti sociali e politici di cui lui e i suoi compagni di band hanno potuto testimoniare da una posizione unica a partire dalla caduta del Muro.
(traduzione di Enrico Monier)