| Il Manifesto | Venerdì 23 dicembre 2010 | Maria Elena Paniconi |
Un’intervista a Magdy el-Shafee, il cui «graphic novel» Metro, censurato nel suo paese e uscito dal Sirente, si inserisce nella nouvelle vague egiziana, che promuove nuove modalità di impegno politico nelle arti
Appena approdato nelle librerie italiane, il graphic novel di Magdy el-Shafee Metro, tradotto da Ernesto Pagano e pubblicato dalla casa editrice il Sirente (pp. 96, euro 15), è stato due anni fa in Egitto al centro di un vero e proprio caso editoriale: uscito nel 2008, è stato infatti immediatamente bloccato dalla censura. Con un tratto mobile ed elegante, il fumetto corre veloce, cadenzato dagli stop della metropolitana, che nelle fermate centrali prendono i nomi illustri della storia contemporanea (Naguib, Nasser, Sadat). Protagonista del romanzo è Shehab, un giovane programmatore indotto da un politico corrotto a indebitarsi fino al collo. Abbandonato da tutti, Shehab decide di rapinare una banca insieme all’amico Mustafa, per trovarsi a sua volta intrappolato in una storia di corruzione politico-finanziaria.
Sono stati i contenuti della storia e soprattutto i rimandi a personaggi e a situazioni reali, unitamente a un’isolata e piuttosto discreta scena di sesso, a far scattare la censura e un’accusa per oltraggio alla morale e diffamazione. Il tribunale di Qasr al-Nil del Cairo ha quindi multato pesantemente sia l’autore sia l’editore, Mohammad el-Sharqawi (all’epoca dei fatti già in prigione per essere stato uno degli organizzatori di scioperi contro il governo) e disposto la distruzione di tutte le copie edite.
Proprio per comprendere meglio il contesto culturale che ha fatto da sfondo a questa travagliata pubblicazione e per analizzare il rapporto fra dissenso civile e linguaggio artistico in Egitto, abbiamo incontrato Magdy el-Shafee, nei giorni scorsi in Italia per presentare il suo libro.
La storia di questo libro è un romanzo a sé: il processo, la pesante ammenda e l’ingiunzione di distruggere tutte le copie uscite. Cosa ha dato più fastidio alle autorità?
Credo che a preoccupare fosse proprio il fatto che si tratta di un romanzo a fumetti. In Egitto i romanzieri, se si escludono autori come ‘Ala al-Aswani, non vantano un pubblico molto esteso. Ma con Metro si trattava di immagini, disegni che potevano aver presa anche sul pubblico più semplice o, addirittura, illetterato, quello cui arrivano solo i programmi televisivi censurati. Ecco perché è stata messa in moto in maniera tanto drastica la polizia morale: perché il fumetto è un mezzo diretto, accessibile e efficace.
Leggendo i comunicati ci si immagina una realtà poco sfumata: il censore da un lato e la vittima della censura dall’altro. Ma sappiamo che le cose a volte sono più complicate: in Egitto ci sono stati anche casi di «censura dal basso» e alcuni film o romanzi sono stati attaccati, negli anni scorsi, anche dalla gente comune, con l’accusa di blasfemia o immoralità. Che percezione ha avuto delle opinioni della gente comune nei suoi confronti?
Certo, sono stato criticato dalla stampa filogovernativa e da molte persone con una visione piuttosto integralista della religione. Ma con mia grande sorpresa, oltre al supporto di liberali, attivisti, bloggers, oltre all’aiuto prezioso di scrittori come Mansura ‘Izz el-Din e di redazioni giornalistiche come quella di «Akhbar al-Adab» («Notizie letterarie», settimanale indipendente di interesse letterario, n.d.r.) mi sono trovato ad avere la solidarietà di alcuni simpatizzanti dei Fratelli Musulmani, un fatto che non mi sarei mai aspettato. Mi ha colpito molto riscuotere la simpatia di chi ha un pensiero politico tanto diverso dal mio e mi sono accorto che ormai esiste un movimento di dissenso che è trasversale.
Come si è avvicinato al fumetto?
Come tutti i bambini del mondo, ho cominciato con Topolino e Superman. Quando ero già un ragazzo, però, fui colpito da alcune tavole di Hugo Pratt: il suo personaggio non era infallibile, non aveva le caratteristiche di un supereroe. Mi sono detto: ecco, si può anche creare un fumetto che parla di un tipo «normale». Non ho mai preteso di essere un grande illustratore, mi interessava solo narrare, alla maniera dei cantastorie tradizionali, quelli che da noi giravano a raccontare, accompagnandosi con la rababa, le saghe popolari di «Antara» e «Qays wa-Layla». Ma come è cambiato negli ultimi anni il modo di narrare? Oggi, con il linguaggio visivo che domina il mondo globalizzato, bastano pochi segni per raccontare storie che arrivano dappertutto. Che so, una «v» e una «w» inscritte in un cerchio evocano «Volkswagen», un dato che, dal Giappone all’Italia, non ha bisogno di traduzione. Quello che mi interessava era proprio trovare una narrazione che fosse universale. E il fumetto, che verso la fine degli anni ’80, con Frank Miller e Alan Moore ha cambiato il proprio linguaggio, mi ha aiutato in questo proposito.
Quali sono i riferimenti sociali e culturali cui ha attinto per caratterizzare il suo eroe e costruirgli attorno una storia come quella che racconta?
Non volevo che il lettore scoprisse Shehab in modo cronologicamente ordinato. Volevo che imparasse a conoscerlo attraverso ogni sua azione, anche piccola. All’inizio appare risoluto e non sembra coinvolto dai grandi discorsi che si agitano attorno a lui: non crede in niente, pare distaccato da tutto, deciso solo a risolvere i suoi guai: un creditore che gli sta alle calcagna, il rischio di perdere tutto, l’omicidio di un banchiere al quale si trova ad assistere per caso. Ma dalla metà del racconto in avanti, vediamo che qualcosa sotto sotto inizia a muoversi in lui. Il cambiamento è visibile nel rapporto che lo lega a Wannas, un vecchio lustrascarpe arzillo e imprevedibile. È un rapporto che si basa sul fatto che entrambi sono outsider nella società egiziana di oggi, ma che alla fine si rivela centrale nella storia. Questo graduale cambiamento si misura anche nella relazione d’amore con Dina, una relazione che non segue la via tradizionale del matrimonio. Se vogliamo, è uno dei tratti più realistici della storia, perché in Egitto oggi molti uomini, a causa della crisi, non si sposano più e questo diventa una sorta di problema sociale, con un gran numero di ragazze che restano «da maritare». Comunque, alla fine il giovane cerca in qualche modo di cambiare la società dall’interno, ma a quel punto sarà la società stessa a non accettare che ciò avvenga.
Fermiamoci su questo tentativo del protagonista che, al contrario di tanti personaggi che hanno popolato il romanzo egiziano dagli anni ’70 in poi, vorrebbe incidere sulla società in cui vive. Pare quasi che il fumetto porti alla ribalta una fondamentale voglia di azione: si può parlare di una nuova forma di impegno politico e civile nelle arti?
Credo che dopo il 2000 le cose in Egitto abbiano iniziato a cambiare a una velocità vorticosa. Il linguaggio degli scrittori ha risentito di questa impennata. Forse il primo a marcare una svolta è stato Ahmad al-‘Aidi con Essere ‘Abbas al-Abd (edito in italiano da Il Saggiatore, n.d.r.). Non dimenticherò mai come nel suo linguaggio allucinato al-‘Aidi osservi ironicamente che in Egitto Cleopatra è una marca di sigarette, e Sakkara una marca di birra: tutto porta il nome di un passato glorioso. «Allora brucia i libri di storia e dimentica la tua preziosa civiltà defunta», dice un personaggio, quasi a volersi scrollar di dosso il peso di un’eredità che ha sempre fornito al governo una troppo facile retorica. Il libro di al-‘Aidi è un viaggio allucinato verso un «fuori», la ricerca di una via di uscita. Al-‘Aidi con Essere ‘Abbas al-Abd o Ahmad Nàji con Rogers, i nuovi autori compiono di continuo questo tentativo di usare l’immaginazione per uscire, in senso figurato sì ma anche fisico, andando lontano, raggiungendo il deserto o la quiete di una casa isolata dalla calca. I giovani talenti non si tirano indietro, danno il loro punto di vista, creano, per dar vita a una nuova realtà e riprendersi il destino che era stato lasciato in mani altrui. La vera sfida in questi lavori è rappresentata dalla realtà in cui viviamo: non esser più costretti a scendere a compromessi è il vero cambiamento.
Nonostante lei abbia dichiarato di non aver scritto un «romanzo politico», Metro sembra esserlo in tutto e per tutto.
Non può non esserlo. Come si può giustificare il fatto che tanti individui abbiano perso qualsiasi sogno? Come giustificare un’ingiustizia sociale come quella che c’è in Egitto? Cosa significa «vivere bene»? Credo che simili questioni siano nella mente di tutti i giovani, in ogni paese. Poniamo che io mi renda conto di non avere speranze nel mio paese: la via più semplice in Egitto è sempre stata dire «me ne vado». Ma dal 2000, da quando è diventata via via più evidente la volontà, da parte del presidente Hosni Mubarak, di passare il testimone del potere a suo figlio Gamal, il paese è stato scosso,come se qualcuno ci avesse portato via l’identità all’improvviso, come se qualcuno avesse dichiarato di volerci paralizzare. Parlo al plurale perché è stata una scossa collettiva e trasversale, e il paradosso è che proprio ora, finalmente, la gente comune ha voce: la televisione è stata in gran parte rimpiazzata da siti internet e blog, e in questi mezzi le persone trovano spazio. In Egitto il governo possiede tutto, ma ora scoperte e innovazioni tecnologiche che prima esistevano solo a beneficio delle grandi multinazionali sono al servizio della gente, che osserva e partecipa e piano piano inizia a ricostruire, a riconoscere e a «onorare» il valore della libertà.
Che lingua parlano i suoi personaggi?
Parlano una lingua nuda, e questo mi è costato una denuncia per oscenità. Dal punto di vista strettamente linguistico faccio un mix di fusha (l’arabo letterario) e ‘ammiyya (la varietà parlata egiziana).
Usare l’arabo dialettale nei dialoghi è uno dei modi più tradizionali di dare un tono realistico al racconto. Lei segue questa modalità o apporta variazioni?
Questo è un romanzo per adulti, quindi registra senza problemi le parole della strada, gli insulti e le imprecazioni. Ma questo linguaggio ricava la sua forza proprio dal fatto che qua e là ci sono alcune righe in arabo letterario. Nella storia non c’è una voce esterna, ma solo poche indicazioni che guidano il lettore nella sua scoperta, senza tuttavia dargli una prospettiva onnisciente. Solo alla fine, nella terzultima pagina, c’è una tavola che appare rovesciata: «Quello che Shihab non avrebbe mai saputo è che…»: ecco, questa frase l’ho messa in arabo letterario. Solo alla fine, quindi, il lettore si accorge che in realtà una voce esterna c’era, anche se fino a quel momento era rimasta in silenzio!
Vorrei chiudere con una domanda che le può sembrare trita, ma che in Italia torna a risuonare nei media e nei discorsi pubblici a causa del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia. Da cittadino egiziano, che cosa è per lei la nazione?
Il nostro Garibaldi, il generale Ahmad Orabi che nel 1879 si ribellò al Khedive, capì che l’Egitto doveva essere degli egiziani. Le sue forze militari erano composite e contavano italiani, francesi, egiziani, ebrei sefarditi, e lui era il loro portavoce. Quell’uomo ha capito cos’era una nazione: un luogo nel quale mi trovo e per il quale nutro un sogno di cambiamento, un luogo per il quale posso prospettare qualcosa di diverso rispetto al presente. Questa era per lui, ed è anche per me, una nazione.