| Millecanali | Mercoledì 10 novembre 2010 | Mauro Roffi e Elena Romanato |
Non c’è pace per giornalisti in Russia, soprattutto per quelli che si occupano di giornalismo investigativo. Martedì scorso, a soli due giorni dall’aggressione ad Oleg Kachin, giornalista del quotidiano indipendente ‘Kommersant’, ad essere aggredito è stato Anatoli Adamciuk. Il giornalista lavora nel quotidiano locale “Jukovskie vesti” (‘Notizie di Jukovskie’, una zona di Mosca) ed è stato aggredito, come ha raccontato un suo collega Sergej Grammatin a Radio Echo di Mosca, da due sconosciuti che lo hanno malmenato a tal punto da procurargli un trauma cranico e una commozione cerebrale, anche se non è in pericolo di vita. Il giornalista si era occupato spesso di questioni ambientali e recentemente stava lavorando ad un’inchiesta sull’abbattimento di parte di una foresta per la costruzione di un’autostrada. E questo è un tema che evidentemente coinvolge molti (troppi) interessi, se è vero che quanti se ne occupano sul serio sui giornali russi di solito finiscono molto male o vivono nel terrore. E la Polizia naturalmente, alla fine, fa ben poco per proteggerli o può fare poco.
Mentre la lista dei giornalisti assassinati o aggrediti e brutalmente malmenati si allunga, l’opinione pubblica vive putroppo in una sorta di torpore o rassegnazione e questo nonostante il lavoro di giornalisti come Kachin o Adamciuk e di molti altri. E stata poi resa nota la dichiarazione del presidente Medvedev che nella sostanza si rivela inquietante e dalla quale si potrebbe intendere che i responsabili dell’aggressione del giornalista vadano ricercati in alto (Medveded sarebbe contrario all’autostrada di cui sopra, sotenuta invece da Putin, ma potrebbe anche trattarsi del solito gioco delle parti). I responsabili, ha detto Medvedev “saranno puniti, a prescindere dalla loro posizione nella società, dai loro meriti”.
Intanto è uscito proprio in questi giorni “Il labirinto di Putin” sulle morti sospette in Russia, secondo libro di Steve Le Vine, giornalista americano corrispondente dal Caucaso del ‘Washington Post’ per 16 anni. E sono forse le stesse parole di LeVine a fare capire perché c’è questo ‘torpore’ nei russi. “Questo è un libro sulla morte in Russia – spiega – . È nota al mondo la lunga storia russa di governanti feroci e assassini spietati. Ma nel primo decennio del ventunesimo secolo, la brutalità e la morte violenta sono di così ordinaria amministrazione da essere solitamente ignorati da tutti tranne che dalle stesse vittime, dalle loro famiglie e dai loro amici. Dopo sedici anni di vita e viaggi nell’ex Unione Sovietica sono arrivato alla conclusione che l’acquiescenza della Russia a questo cruento stato di cose la distingue da altre nazioni che si definiscono civilizzate. Capisco che è un giudizio duro, ma posso solo dire che non è affrettato”.