Satsfiction (Alessandro Vergari, 12 giugno 2018)
Fuori da Gaza
“Fuori da Gaza” di Selma Dabbagh (Il Sirente, 2017, traduzione dall’inglese di Barbara Benini) è un romanzo sul dolore dei palestinesi. Cosa “rappresenti” Gaza, non è semplice dirlo. Il punto nevralgico della crisi mediorientale? Dopo l’esplosione e l’internazionalizzazione del conflitto siriano, non più. Un carcere a cielo aperto? Certo, non si contano le persone adulte nate a Gaza e mai (sottolineo, mai) uscite dai suoi confini. Eppure, dopo gli eventi bellici che hanno coinvolto Aleppo, Homs, Raqqa, Mosul, Ghouta, l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale si è concentrata sulle vicende di altre città assediate. Perfino i vicini Paesi arabi sembrano oramai rassegnati alla normalizzazione del “caso” Gaza. Nella Striscia, la morte incontra la tecnica, un connubio letale, nel segno di una perfezione assassina. Un drone, un elicottero, un aereo militare, o la buona mira di un cecchino: in quanti modi si muore nei Territori Occupati? Anche qui, la nostra sensibilità sconta il dilagare di una certa assuefazione.
Gaza, comunque, conserva tratti di unicità. “Occupazione” è un termine che contiene in sé il suo complemento, perché chi occupa è, ça va sans dire, Israele. C’è chi opprime e chi è oppresso. C’è chi ha sottratto territorio, sorgenti, campi, case e chi ha subìto il perpetuarsi di inenarrabili ingiustizie e ancora le subisce. Il 30 marzo scorso una manifestazione di trentamila persone, organizzata per chiedere il ritorno nelle terre perdute nel 1948, è stata repressa nel sangue. Diciassette morti. La giornalista Amira Haas ha scritto che la Marcia voleva scuotere “il pilastro fondamentale della politica israeliana, cioè l’idea di stroncare il progetto nazionale palestinese separando la Striscia di Gaza dal resto della società palestinese in Cisgiordania e Israele”, e che “l’esercito israeliano si permette di violare il diritto internazionale e uccide dei civili disarmati perché l’opinione pubblica israeliana lo considera a priori un atto di difesa”. Amira Haas è però una voce isolata nel dibattito nazionale, al pari di un altro giornalista di sinistra, Gideon Levy. Il governo Netanyahu dipende dall’appoggio degli estremisti ultraortodossi e l’accentuazione della violenza è l’esito di questo abbraccio politico fatale.
Selma Dabbagh ha scritto Fuori da Gaza, opera premiata con il “Guardian book of the year”, forte di una complessa stratificazione di esperienze. Selma Dabbagh è un avvocato dei diritti umani. Per lavoro ha girato il mondo e ha vissuto in Francia, nei Paesi del Golfo, a Londra. Nata in Scozia nel 1970, annovera, nel ramo paterno della famiglia, originaria di Jaffa, un nonno incarcerato dagli inglesi ai tempi del Mandato Britannico per motivi politici e un padre ferito, a dieci anni di età, da una granata lanciata dai sionisti. Selma Dabbagh ha deciso di affrontare la tragedia in un romanzo di pura fiction, costruito su letture, studi, conoscenza diretta e indiretta di fatti, situazioni, avvenimenti storici. In Fuori da Gaza l’autrice introduce senza remore il tema della divisione dei palestinesi, inchiodando alle proprie responsabilità “le vittime delle vittime” (una definizione di Edward W. Said). La scrittrice evita la trappola del facile manicheismo e della bieca propaganda. Sia chiaro: nel romanzo il nemico, benchè spesso senza volto, mano visibile guidata da una mente invisibile, non sfugge all’identificazione. Eppure, fin dall’inizio, il fronte interno appare percorso da divisioni e appannato dalla macchia di un nascente estremismo, per nulla funzionale al perseguimento dell’obiettivo comune. Selma Dabbagh denuncia anche la diffusa corruzione tra gli alti ranghi dell’Organizzazione e tra i vertici delle Istituzioni.
Al centro del romanzo vi è una famiglia radicata nella militanza. Jihàne, la madre, in apparenza lontana dalla linea calda del conflitto, nasconde un segreto, un gesto “rivoluzionario” compiuto in gioventù, ignoto ai suoi stessi figli; Sabri, il primogenito, è un intellettuale costretto su una sedia a rotelle da un attentato che, oltre alle gambe, gli ha strappato via anche una moglie ed un figlio; Rashid e Iman sono i due fratelli gemelli più giovani, lui, interessato a Gloria, la sua pianta di marijuana, e a Lisa, la sua fidanzata inglese, tanto quanto alla lotta contro l’invasore, lei, impegnata nel Comitato Femminile, rischia di soccombere al fascino delle milizie islamiste. Jibrìl, il padre, ex dirigente del Governo in Esilio, si è da tempo trasferito in una nazione del Golfo Persico e conduce un’esistenza all’insegna della postmodernità, simboleggiata dalle irreali sagome dei grattacieli innalzati nel deserto e dalla figura di una nuova compagna innamorata dei centri commerciali.
Rashid e Iman, per motivi diversi, sono spinti fuori da Gaza. Iman, scampata per un soffio all’attacco che costa la vita al suo “contatto”, il losco religioso Seif El Din, è allontanata dalla sua città dietro il vincolante consiglio di Ziyyàd Ayyùbi, combattente della Guardia Patriottica e figlio di due intellettuali barbaramente trucidati. Iman raggiunge il padre. Un viaggio infruttuso, caratterizzato dalle incomprensioni con Jibrìl e dalle frizioni con Suzi, ambigua levatrice del desiderio che le suggerisce, con malizia, di diventare finalmente “donna”. Un “traguardo” che Iman taglia poi a Londra, una tappa della sua maturazione vissuta quasi come un dovere militare.
Il bel Rashid è un ragazzo vulnerabile, dalla personalità non ancora delineata. Una borsa di studio lo catapulta nella capitale inglese, da Lisa, attivista dei diritti umani. Selma Dabbagh si avvale di una narrazione limpida e sfodera una cruda ironia nell’imbastire un circo di presenze fragili, artefatte, effimere. Timide studentesse fulminate sulla via della rivoluzione, funzionari governativi ripiegati nel bozzolo delle proprie comode verità… Gli inglesi “impegnati” a favore della Palestina hanno in mente il modello etno-antropologico, preconfezionato, del guerrigliero eroico, un’immagine standardizzata di come dovrebbe essere il palestinese-tipo, inflessibile e imbevuto di dottrina. Quando Rashid finisce in carcere per errore durante una manifestazione, perché scambiato per Ziyyàd Ayyùbi, è presto scagionato dall’accusa più grave, terrorismo, ma è comunque incastrato da una modesta quantità di droga trovata nelle sue tasche. Che delusione, per Lisa, constatare di non avere a che fare con un potenziale prigioniero politico, bensì con un banale consumatore di hashish!
Iman, redenta dai propositi di immolazione terroristica, si innamora del suo salvatore Ziyyàd Ayyùbi. Certo, è il sentimento a trasformarla, ma la sua vita imbocca la strada dell’adorazione del combattente per la Causa, un destino non disallineato dalla storia familiare. È Rashid l’antieroe del romanzo, incapace di conformarsi agli schemi predeterminati da altri (amici, compagni di lotta, parenti), o da altro (cultura, tradizione). Perfino il fratello Sabri lo manipola, con grave assenza di tatto, per ottenere informazioni utili alla scrittura del suo saggio-testimonianza sull’Intifada, mettendolo così al corrente dei trascorsi giovanili della madre. Un “danno collaterale” che ferisce la psiche di Rashid. Selma Debbagh insiste sul moralismo della famiglia, un atteggiamento convergente col rigorismo radical-chic dei londinesi. Un fumatore di canne è considerato un imbelle, un traditore della rivolta, un individuo carente di integrità morale. Come tale è trattato Rashid, ritornato a Gaza dopo la parentesi inglese. Un’etichetta che il giovane si toglie di dosso nel gesto che chiude il romanzo e suggella una paradossale, tragica affermazione di libertà e di dedizione alla propria terra. Gaza è un luogo asfissiato da muri e reticolati, una realtà parallela dove la regola è la sottrazione dei diritti, una zona del pianeta governata dallo stato di eccezione, un’enclave assurda, ai confini della realtà: questa, sembra dirci la scrittrice, è la vera droga, la sostanza psicotropa chiamata Occupazione, somministrata a due milioni di palestinesi.
“Così dorme il mondo. Così si sveglia il mondo. Così mi dimentica. Si ricorda di me solo in due casi: quando sperimento la morte, quando sperimento la vita”, scriveva il poeta Mahmud Darwish. “Poteva saltare fino alla fine, sulla terra frantumata, sui pilastri crollati, sui tiranti delle tende di quella terra desolata che era la loro, poteva sentire il cuore sospingerlo con passione verso il cambiamento”, scrive Selma Dabbagh nelle ultime righe del suo romanzo. Vi è sempre una linea d’ombra oltre la quale si può essere liberi. Ma qual è il prezzo per essere umani?