| Osservatorio Iraq | Domenica 22 dicembre 2013 | Chiara Comito |
Quella stessa neve che non ha risparmiato i campi profughi in cui vivono centinaia di migliaia di siriani in fuga da un paese lacerato da due anni di guerra civile e vittima dell’indifferenza del mondo.
È impossibile non pensare ai tanti bambini, uomini e donne intirizziti o morti per il freddo tagliente quando si leggono le poesie del poeta curdo siriano Golan Haji contenute nella raccolta L’autunno, qui, è magico e immenso (Il Sirente, 2013), dove i versi scandiscono i tempi di stagioni terribili, fatte di polvere, lacrime, pioggia, sangue, dolore e desideri irrealizzati.
E di neve. La neve su cui camminano, ad esempio, i soldati della poesia “Scrigno di dolore” in cui il poeta, parlando della condizione degli esiliati che egli stesso vive dal 2011, scrive: “Ora sei una storia raccontata dove manchi./La tua gola,scrigno di dolore,/è piena di ossa e piume./Nel bianco dell’occhio/hai una macchiolina di sangue arrugginita/simile a un sole che tramonta lontano/su un campo di neve/calpestato da lunghe file di soldati affamati”.
La lingua di Haji è densa, potente, terribile e allo stesso tempo capace di suscitare emozioni familiari, intime e a volte tenerissime. Dall’accostamento di colori, ricordi e oggetti nascono immagini disturbanti e inquiete che interrogano il lettore e lo costringono a riflettere.
Il poeta fa largo uso dei colori che associa a sensazioni o cose: rosso è il sangue vivo, che dilaga inarrestabile (“e nulla questo sangue fermerà/escluso il sangue e il vento”); gialle sono le foglie che “volano ed urlano”; l’azzurro evoca immagini fredde e laceranti come un tatuaggio che gocciola come un profumo o il colore del soffitto di una stanza d’esilio. Nera, infine, è la notte di un inverno che non accenna a finire.
Una notte pesante che si dischiude all’infinito ma che era sanguinosa già nel 2011, come in quello “Scrigno di dolore”, in cui il poeta si chiede come si possa seppellire il dolore, dopo avere sepolto i morti.
Paradossi e metafore si intrecciano ad oggetti e suoni vivi e lontanissimi tra di loro che rimandano a immagini plastiche, rotonde e fantastiche. Nel leggere le poesie contenute nella raccolta sembra quasi di trovarsi di fronte ai quadri dei maestri del surrealismo come Magritte e Dalì o alla pittura metafisica di De Chirico: la lettura provoca inquietudine e perdita di ogni riferimento spazio-temporale proprio come la visione delle loro opere.
La luce in Haji è talmente accecante da provocare il buio, come ne “L’impero delle luci” di Magritte; il corpo del poeta si apre al mondo, è finestra in cui guardare e da cui guardare all’esterno come nell’opera “La voix du sang”, sempre del maestro francese (“Coloro che attraversavano il cielo/esteso si avvicinarono a guardare,/una mano mozzata aprì loro la finestra dall’interno,/si scambiarono lingue e peccati/per poi sparire come fulmini/all’orizzonte in mezzo al cielo deserto./La mia finestra è aperta”).
I corpi descritti nei versi di Haji sono corpi pesanti, disfatti, stracciati: i volti hanno occhi senza palpebre spalancati sulla fissità del mondo, le bocche sono lacerate o cancellate, come nelle opere più inquietanti di Dalì e De Chirico. C’è una corrispondenza tra l’universo e il poeta-uomo che diventa strumento e tramite di senso. Scrive il poeta in “Meriggio”: “Pieno della mia assenza,/avanzo lentamente, con le pietre/che mi galleggiano tra le costole,/mi fluiscono dalla bocca e dagli occhi,/per poi cadere accanto a me e svanire”.
La metafora dell’occhio è un topos ritornante nella poetica di Golan Haji, che viene usata anche per fare riferimento al presente, un presente testimoniato dalla parola “qui/هنا” e che è vivo ma terribile e angusto: “Il presente è un occhio/con le palpebre mutilate/E lo sguardo sanguinante”. Un’immagine che, per un gioco di accostamenti, ricorda da vicino l’opera dell’artista palestinese Raeda Saadeh.
Ma “qui/هنا” ritorna anche quando il poeta deve comunicarci che lui non è “di qui/né sono qui” perchè vive nella condizione terribile e dolorosa dell’esilio di cui parla in molti dei versi. E dall’esilio, il “lì/هناك” diventa la propria terra, la cui geografia è tratteggiata con tenerezza e calore in quanto ricordo più caro.
Mentre l’esilio è solitudine (solo/ وحيد), lontananza (lontano/بعيد ), condizione di invisibilità (“io sono il pane degli invisibili/divorato dagli sguardi degli altri”), indifferenza letta negli occhi di chi gli passa accanto per strada o lo ascolta, facendo finta di capirlo. Il poeta soffre per la sua incapacità di parlare e la paura di farlo (“le mie parole,/ che sono il deserto e mi fan male […] Perchè dovrei parlare?”) in un tempo in cui “la poesia è alla deriva” e i poeti in Siria “crollano l’uno dopo l’altro,/ali insanguinate, in una lunga palude”. Il poeta ha paura di non essere capito anche se ha “mucchi di parole nel petto”.
E intanto l’inverno continua, il mondo è conflitto e dolore e la parola non è sinonimo di salvezza mentre “le nostre foto si vendono/come cartoline in bianco e nero,/e i binari son croci/fatte di fiammiferi e ossa di bambini”.
Le poesie scelte contenute nella raccolta – la prima ad essere tradotta in italiano – sono state pubblicate tra il 2004 e il 2013 tra Damasco, Beirut, Doha, Chicago e Copenhagen e testimoniano l’interesse internazionale che la poetica di questo giovane medico patologo curdo ha suscitato in lettori ed editori.
Nelle poesie scritte negli ultimi due anni è più forte l’accento politico, ma sono le poesie scritte nel 2004 e 2008 quelle che colpiscono di più per la bellezza e la forza delle immagini create, anche se una traduzione italiana più poetica e fluida avrebbe consentito di apprezzarle di più. Ciononostante, rimane l’importanza di poter leggere un’opera di questo tipo, soprattutto in un momento in cui la Siria è al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica internazionale, anche se spesso e volentieri il racconto che se ne fa è viziato da superficialità e pregiudizio.
Forse perchè quello che succede in Siria interroga le nostre coscienze in quanto esseri umani che camminiamo impauriti tra le rovine da noi stessi create, come Haji ha scritto di recente su Words Withour Borders:
“La Siria è stata celata ai siriani. Oggigiorno, i siriani si sentono parte del loro paese, ognuno a modo proprio. Questa esperienza continua di dolore e speranza, questa rivoluzione in cui la maggior parte dei siriani si trova da due anni, ha portato alla luce molti contrasti repressi e ha cambiato il modo con cui rimettiamo insieme i pezzi del nostro passato. Le conseguenze di tale catastrofe inflitta ai siriani gettano un’altra luce sulla lunga storia del regime fatta di omissioni e crimini. Una molteplicità di idee e immagini giace alla rinfusa nelle nostre menti e per terra, e stordimento e terrore coglieranno chiunque avrà il coraggio di guardarvi”.