| Avvenire | Venerdì, 24 ottobre 2014 | Riccardo Michelucci |
Più profetico di 1984 di Orwell, più surreale della Metamorfosi di Kafka. Quando dieci anni fa il romanziere siriano Nihad Sirees scrisse The Silence and the Roar, non poteva immaginare che quella riuscitissima satira politica avrebbe rispecchiato così fedelmente il futuro del suo paese.
“Non volevo scrivere un romanzo premonitore – ci spiega oggi dall’esilio dove vive da alcuni anni, per motivi di sicurezza, – ma solo un libro che rappresentasse correttamente il dittatore siriano e la situazione del mio paese. Qualcuno – prosegue – doveva pur scrivere che Bashar era un dittatore che governava con la paura mentre all’epoca molti, soprattutto in Occidente, credevano che fosse un uomo mite e gentile, e che fosse amato dal suo popolo. Nessuno aveva raccontato che egli costringeva invece la gente a mostrare amore nei suoi confronti. In seguito, purtroppo, abbiamo visto tutti che è stato capace di portarci all’inferno”.
Pubblicato nel 2004 in Libano e circolato per anni in Siria solo attraverso canali clandestini, due anni fa il romanzo di maggior spicco di questo scrittore e sceneggiatore originario della città di Aleppo è stato tradotto in inglese e diffuso anche in Occidente; nelle prossime settimane arriverà finalmente nelle librerie anche in traduzione italiana, col titolo Il silenzio e il tumulto, edito dalla casa editrice Il Sirente, da tempo impegnata in un’interessante opera di diffusione della letteratura araba. È un romanzo sulla vita durante la dittatura, ambientato in un paese immaginario ma con chiari riferimenti alla Siria, l’affresco di un popolo le cui vite sono dominate dalla paura, reso con una scrittura brillante, ironica e fortemente allegorica attraverso una vicenda che prefigura l’attuale situazione siriana. La trama si svolge tutta all’interno delle ventiquattr’ore di un giorno particolare, quello in cui il regime festeggia il ventennale dell’ascesa al potere di un anonimo dittatore. Il tumulto richiamato dal titolo è quello prodotto dalle grida e dai festeggiamenti dei sostenitori scesi in strada a sfilare per dimostrare il loro ardore verso il grande leader, ma anche quello dei pestaggi riservati a chi non manifesta. Un rumore e un caos che servono anche a impedire al popolo di pensare, di commettere cioè il crimine dell’uso del pensiero. Il silenzio è invece la condizione alla quale è costretto il giovane protagonista del romanzo, lo scrittore 31enne Fathi Sheen, messo a tacere dal regime perché accusato di idee antipatriottiche. Un silenzio che rischia di diventare definitivo – in prigione o addirittura nella tomba – se oserà opporsi al regime che gli chiede di schierarsi dalla parte della propaganda. E lui ne è ben consapevole, al punto da ammettere: “non faccio più niente, non leggo, non scrivo, non penso nemmeno. In tempi come questi, il silenzio è saggezza”.
Molteplici sono i riferimenti letterari che si possono individuare nel testo: da quelli più immediati – a Orwell e al surrealismo di Kafka – fino a opere completamente diverse, come L’autunno del patriarca di Garcia Marquez. “Gli uomini e le donne sconfitti dalla tirannia smetteranno di amare”, sostiene Sirees, e infatti il tema dominante di un libro che è inevitabilmente anche autobiografico è la metafora dell’artista che cerca di resistere sotto la dittatura, che prova a tenere in vita la sua arte tra rumorosi e silenziosi stati d’animo. Ci riuscirà soltanto grazie all’amore per Lama, una donna che richiama alla mente Julia, la figura femminile che in 1984 fa ritrovare il desiderio di libertà a Winston Smith, l’impiegato preposto alla riscrittura della storia. La passione per Lama diventa per Fathi una forma di resistenza, “il solo modo per urlare in faccia al silenzio”. Ma c’è anche un’altra arma, assai potente, con la quale gli uomini possono sconfiggere la dittatura, ed è il sarcasmo, che può essere usato per reagire all’insensata crudeltà del regime al potere. I toni da commedia dell’assurdo utilizzati nella narrazione intendono ridicolizzare la devozione che il popolo è costretto a mostrare nei confronti della dittatura ma anche l’assurdità di uno stato costruito attorno alla personalità del suo leader. Fino al tragicomico finale, carico di significati simbolici e premonitori. “Il merito principale di questo libro – sostiene Sirees – è quello di aver fatto vedere al mondo che la pace nella quale si trovava la Siria prima della guerra civile era artefatta e costruita sulla paura. Non era pace, era soltanto silenzio”. Ma il sarcasmo non riesce a nascondere la sua disillusione nei confronti del futuro: “in questi anni ho visto un incubo trasformarsi in realtà sotto i miei occhi. Oltre alle morti, alle violenze e alle distruzioni, è particolarmente doloroso vedere Aleppo, la mia città, sulla quale ho scritto tutti i miei libri, la cui cultura e la cui storia stanno scomparendo. Sul futuro non mi faccio illusioni, spero che le persone cui voglio bene siano ancora vive. Quanto all’ISIS, non sarebbe mai nato se i regimi vari – Iraq, Siria, Iran ma anche il Libano di Hassan Nasrallah – si fossero comportati in modo pacifico con i loro oppositori moderati. Sono stati proprio questi regimi a creare le condizioni per la nascita e il proliferare dell’estremismo”.