Riportiamo la prefazione al romanzo di uno dei maggiori rappresentanti della letteratura lusofona contemporanea, vincitore del Premio Jabuti e del Premio Saramago: NonnaDiciannove e il segreto del sovietico (Editrice il Sirente, 2015, trad. it. Livia Apa)
Nel corso della mia infanzia e adolescenza mi proponevo sempre di scrivere un libro che raccontasse delle persone che vivevano, allora, intorno a me.
Questo è, in parte, quel libro: ma solo in parte, perché la memoria è labile, e perché i libri tratti dalla realtà non sono spesso che esili barlumi e schegge di quanto abbiamo visto e udito.
Natalia Ginzburg
Nel 1957 José Luandino Vieira scrive A cidade e a infância, una raccolta di dieci brevi narrative in cui, pur non mettendo ancora in atto compiutamente il processo di sovversione linguistica che verrà ad essere una delle principali caratteristiche della sua futura opera, fondativa della letteratura nazionale angolana, trova spazio il mondo dei musseques, della periferia di Luanda segnata dalla povertà che accomunava i suoi abitanti negri, bianchi e mulatti, dove l’autore aveva vissuto la sua infanzia. Si tratta di brevi narrative in cui la lingua portoghese si apre ad un’espressione orale e già angolana, capace di “dire” uno spazio di diversità culturale e identitaria. Sovvertire la lingua vuol dire, così, cercare un’espressione nazionale in un contesto in cui la Nazione è ancora solo sognata e quest’operazione diventa l’esercizio politico di una differenza in nome della quale si vuole sovvertire l’ordine coloniale. Anche del discorso. Il titolo che unisce le narrative di Luandino segna dunque un preciso tempo, quello dell’infanzia inteso come utopia possibile, e un preciso spazio, quello urbano dei musseques colto nella sua contrapposizione alla Luanda di cemento, raccontata dalla letteratura coloniale come uno spazio neutro e apparentemente pacifico in cui la tensione anticoloniale non trova però alcuna voce. È in questa traccia che si iscrive la scrittura di Ondjaki, nato nel 1977, quando cioè l’Angola era ormai indipendente da due anni, recuperando quello stesso binomio, la città e l’infanzia, e istituendo un dialogo tutto interno innanzi tutto alla letteratura angolana e per estensione a quella scritta in altri margini della lingua portoghese. Ondjaki restituisce alla dimensione urbana e infantile una nuova connotazione perché nuova è ormai l’Angola. Il dialogo con Luandino, esplicito in Quantas madrugadas tem a noite, è però costante in quanto è usato da Ondjaki come l’inizio a partire dal quale è possibile raccontare il progetto di Nazione. Tale dialogo, che sottintende l’implicita esistenza di un canone narrativo angolano, si alimenta della parola di altri scrittori di generazioni precedenti fra i quali Manuel Rui, Ana Paula Tavares e Ruy Duarte de Carvalho come vediamo anche in questo NonnaDiciannove.
L’infanzia qui raccontata, come già in Buongiorno Compagni ha come sfondo l’Angola della guerra civile, popolata da cubani e sovietici accorsi in aiuto della rivoluzione ma si popola essenzialmente di piccole storie, non solo quelle dei bambini, ma quelle di tutti gli abitanti della PraiaDoBispo. Un universo narrativo quindi che è quasi metonimia della nascente Nazione così come, anni addietro, la realtà del musseque lo era stata per raccontare la violenza coloniale. Nel libro, NonnaDiciannove racconta le storie del passato e si fa promettere dal nipotino che le avrebbe ricordate per sempre per raccontarle “da grande”, per non far sparire la memoria della PraiaDoBispo che è soprattutto memoria di una modalità dell’occupare uno spazio utopico abitato dalla prima generazione post-indipendenza. E l’eventuale oblio pare addirittura più minaccioso della “esplosione” della PraiaDoBispo.
La toponimia e i nomi dei personaggi scritti come si pronunciano assumono quindi un valore di riconoscimento intimo di appartenenza ad una storia collettiva di uno specifico segmento della vita di Luanda detta qui in una lingua segreta (come tante che i bambini per fare comunità), una lingua che si mischia con le parole d’ordine della rivoluzione e con la retorica del partito unico, con il cubano, da cui sono però esclusi i personaggi che occupano la PraiaDoBispo contro la volontà di chi ci abita e che parlano una lingua che può essere quindi solo parodiata e schernita. Un lessico famigliare nella sua accezione più pura, che si fa lingua possibile del sogno di un mondo nuovo all’epoca, e forse soprattutto oggi, ancora in fieri.
“Quando c’incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti, o distratti. Ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase, una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia” ci ricorda ancora Natalia Ginzburg, ed è anche nelle parole e nella lingua che sembra crearsi continuità con quel processo di rottura iniziato da Luandino. Il fatto che la lingua portoghese sia lingua ufficiale dell’Angola post-coloniale non vuol dire che debba essere usata come nell’antica capitale dell’impero. Diventa qui, invece, uno spazio di riconoscimento, una testimonianza capace di creare la memoria necessaria per il futuro.
Livia Apa
Università degli Studi L’Orientale di Napoli
Gennaio 2015