Riportiamo la prefazione al romanzo di uno dei maggiori rappresentanti della letteratura lusofona contemporanea, vincitore del Premio Jabuti e del Premio Saramago: NonnaDiciannove e il segreto del sovietico (Editrice il Sirente, 2015, trad. it. Livia Apa). L’autore della prefazione, Beppi Chiuppani, è dottore di ricerca in Letterature comparate presso la University of Chicago.
Il destino delle illusioni è la loro dissoluzione. Così accade a tanti degli aspetti del mondo sentimentale dell’infanzia: come quello di desiderare fortissimamente trovando tuttavia appagamento anche in compiti minuscoli, o la certezza di poter raggiungere in qualche modo i propri scopi, o ancora la fiducia nella benevolenza di fondo degli esseri e dell’essere. Sono tratti di un’età altamente specifica sulla quale in Italia ha riflettuto più di tutti forse Leopardi, che senza mai mettere in discussione l’inevitabilità della sua scomparsa ritorna pertinacemente ad essa in moltissime pagine dello Zibaldone: perché nella fanciullezza si vive una sorta di tregua della natura, una sospensione della sua malignità, e c’è la possibilità di raggiungere un equilibrio tra desideri e piacere che in tutte le altre età della vita (eccettuata forse la vecchiezza) è invece mancante.
Verrebbe da pensare che il crollo di quest’età dell’oro (che nell’analisi leopardiana non è comunque scevra da dolore) dovrebbe avvenire tanto più rapidamente e drammaticamente proprio nella città in cui è ambientato questo romanzo di Ondjaki, testo vincitore di uno dei più autorevoli premi letterari del mondo lusofono (lo Jabuti). Siamo infatti nella Luanda degli anni Ottanta, capitale di un’Angola già devastato da decenni di selvaggia guerra coloniale e ora scosso dai conflitti successivi all’indipendenza, in cui si oppongono da una parte le forze del partito governativo, sostenute da sovietici e cubani (pittorescamente presenti nel testo) dall’altra una coalizione appoggiata da Stati Uniti e Sudafrica. Eppure nelle pagine di Ondjaki le tracce del disordine – divieti, timori di esplosioni, truppe estere – esistono soltanto attraverso la loro trasfigurazione. Cresciuto proprio nella Luanda di quegli anni, l’autore riesce a ritrovare la sensibilità del fanciullo che era stato e a impiegarla narrativamente e direi anche psicologicamente, come uno strumento non di evasione ma piuttosto di sopravvivenza.
Scrittore dalle origini e dai temi prevalentemente africani ma da tempo pienamente operante attraverso il circuito transnazionale della lusofonia (in particolare nella triangolazione tra Luanda, Lisbona e Rio de Janeiro, le tre capitali della lingua portoghese contemporanea) Ondjaki ha fatto scelte letterarie che saranno particolarmente apprezzate dal lettore italiano, e non soltanto per il ruolo che da queste parti ha avuto la riflessione leopardiana sull’infanzia; sappiamo inoltre quanto frequentemente, in tempi più recenti, Italo Calvino abbia cercato di includere il registro della fanciullezza nelle sue costruzioni narrative, portando il filone della letteratura giovanile a inserirsi pienamente nella tradizione letteraria più impegnata (in parallelo al lavoro diverso eppure affine di Elsa Morante, Dino Buzzati e altri). Con Ondjaki questa saldatura è piena sebbene essa avvenga in un modo completamente diverso, e per questo interessante da confrontare alle opere degli italiani ricordati: cioè recuperando il patrimonio sociolinguistico di Luanda.
In NonnaDiciannove questa modalità si dispiega in un modo ancora più complesso che non nel precedente Bom dia camaradas [Buongiorno Compagni!, ndr]: qui il fanciullo è protagonista di un contesto sociopolitico più articolato, dove la sensibilità per il grottesco inatteso, la propensione per la meraviglia e per il timore momentaneo, l’ammirazione per l’altro, riescono a riformulare la realtà storica di un particolare quartiere di Luanda (la romanzesca “PraiadoBispo”) in una vera e propria “comunità alternativa”. Una comunità, cioè, non necessariamente destinata a vivere la sperequazione economica e le politiche di rapina dell’Angola d’oggi, ma dove la sensibilità del fanciullo si pone come orizzonte di possibilità di una quantità di relazioni sociali tra angolani, cubani e sovietici caratterizzate da creatività, avventura, compassione – e infine riscatto. Ciò non poteva che svolgersi in uno spazio fortemente metaforico, ritrovato da Ondjaki nei pressi di un grande cantiere realmente esistito e che sarebbe rimasto aperto per circa due decenni. Vi veniva costruito l’immenso mausoleo del leader del movimento per l’indipendenza angolana, Agostinho Neto, a forma di strano missile o “foguetão” che punta non si sa bene verso chi o cosa: oggetto a un tempo sinistro e fanciullescamente poetico.
Se il monumento possiede un’apparenza ancipite, è perché sono i testi stessi di Ondjaki ad avere una dimensione doppia: proprio nella loro leggerezza risiede l’impossibilità di guardare alla storia in altro modo; è come se la vita di Luanda (certamente metonimia di una più vasta umanità) non potesse essere redenta in nessun’altra maniera, come se soltanto attraverso la trasfigurazione sognante del bambino si potesse continuare a vivere, anche da adulti. Credo che un certo Leopardi non sarebbe stato in disaccordo. Ma se la fanciullezza può acquistare vita postuma ciò è reso possibile soltanto dall’arte, che in Ondjaki diventa la fabbrica di un doppio soggetto rimembrante, autore e lettore. In questa prospettiva l’equilibrismo stilistico sul filo di una lingua impossibile, infantile e colta, è fondamentale. Si tratta dell’invenzione di un particolarissimo inconfondibile idioletto che vive fortemente di influenze del sostrato linguistico angolano e che inevitabilmente si rivela di traduzione tanto ardua quanto stimolante. Vi si notano immediatamente le compressioni dei toponimi, gli anacoluti colloquiali, ma anche risemantizzazioni di espressioni istituzionali (penso a formule come “camarada agente”, oppure alla “Rádio nacional” col suo “noticiário”, utilizzati al di fuori dei loro contesti usuali). Il mondo linguistico ufficiale-burocratico si riveste in questo testo di una patina africaneggiante che gli dona un’aura fiabesca e lo inserisce nell’orizzonte di una vita perpetuamente realizzata: ed è impressionante quanto in quest’operazione stilistica l’Ondjaki de Il segreto del sovietico ricordi la prosa proprio di un autore sovietico, Andréj Platonov – caratterizzata da un’altrettanto peculiare combinazione di lirismo, comicità e grottesco. Dopo aver preso parte al conflitto rivoluzionario russo Platonov venne rapidamente estromesso dal partito, ma si trovò ad affrontare una sfida ancora più grande: quella di mantenere viva la visione di una società giusta continuando a rievocare il sogno di una rivoluzione ormai deragliata, nell’arte. Ciò che Ondjaki ci regala in questo testo è il persistere di questa straordinaria, umanissima, illusione.
Beppi Chiuppani
Gennaio 2015