| Decoder | Lunedì, 27 agosto 2012 | Gabriele Moccia |
Il porticciolo di Ksar Hellal – pochi chilometri a sud di Monastir, nella regione tunisina del Sahel – raccoglie un caleidoscopio di colori, il blu scuro del Mediterraneo profondo cede lentamente il passo al verde e all’ambra intenso, il segno che delimita l’ingresso nell’immensa laguna di Fadhiln. In passato, tutta questa zona è stata tristemente nota come punto di partenza di numerosi viaggi della speranza verso le coste europee, ma oggi, soprattutto negli occhi dei bambini che mi accolgono, sembra di cogliere i segni di una vitalità ritrovata che vuole scacciare le tracce del passato per fare posto al nuovo. Incontro Moncef, che gestisce una piccola comunità di pescatori, i quali solcano questi mari a bordo di tradizionali feluche di legno. La rivoluzione è arrivata anche in questo posto, dove la fanno da padrone una natura ricca e selvaggia e il sole arroventato di agosto. Si parla molto di politica e Moncef indossa fieramente una maglietta, dove campeggia la scritta Free Tunisia. Qui tutti sono sempre stati particolarmente ostili al regime di Ben Ali – a Monastir sorge il mausoleo di Bourghiba, il padre della Tunisia mai dimenticato – e speravano, confida Moncef, in un cambiamento politico radicale già dal 2006, quando lo Stato nepotistico messo in piedi dal dittatore tunisino si adoperò per un primo aumento indiscriminato dei prezzi dei generi di prima necessità.
Ricostruire l’eziologia di una rivoluzione non è mai facile, figuriamoci di una di quelle che ha innescato una vera e propria reazione a catena dalle proporzioni ancora difficilmente calcolabili, ma, certamente, è proprio da luoghi come Ksar Hellal, vissuti da comunità semplici e laboriose in cerca di dignità, che tutto è cominciato. Un piccolo tassello alla volta, fatto di scioperi, proteste e piccole battaglie personali contro uno Stato strozzino, che via via è diventato un grande mosaico rivoluzionario. Punto fermo e simbolo di questa storia è la rivolta dei minatori di Redeyef, nella regione siderurgica di Gafsa. Siamo nel 2008, a seguito di un concorso truccato per la Compagnia dei fosfati di Gafsa, scoppiano le manifestazioni che coinvolgono operai, disoccupati, studenti e semplici cittadini, che riescono a occupare il villaggio per qualche mese. In quell’humus culturale si comincia a credere di poter cacciare il dittatore e costruire una Tunisia democratica. Secondo Mohamed Abes, uno dei membri regionali dell’Unione generale dei sindacati tunisini (Ugtt), il vero collante della lotta a Ben Ali è stato il lavoro, e proprio l’Ugtt si è fatto carico di una fase importante della rivoluzione dei gelsomini, organizzando ad esempio il grande sciopero generale del 14 gennaio 2011, dove migliaia di persone riuscirono finalmente a destituirlo. Anche il giornalista Yassin Temlali, sulle pagine del Maghreb Emergent, rileva come mai sia accaduto che un sindacato nel Maghreb e nel Medio Oriente abbia giocato un ruolo politico tanto importante quanto quello svolto dall’Ugtt negli eventi tunisini dello scorso anno.
Il mercato di MonastirIl mercato di MonastirMa perché questa caratteristica così peculiare rispetto alle dinamiche più generali della primavera araba? Cerco di affrontare il discorso con Salah, la guida che mi accompagna in questo viaggio. La risposta risiede nella fisionomia stessa che negli anni aveva assunto il regime di Ben Ali, un sistema mafioso e criminale in continua espansione, ma soprattutto sempre molto attento a deprimere ogni forma di libera iniziativa economica e ogni organizzazione lavorativa capace di opporsi a questa struttura tentacolare e ben ramificata. E vero, anche in questo caso forte è stata la repressione fisica causata dalla polizia e dai servizi segreti contro gli oppositori, il carcere duro e l’esilio, tristi analogie con la Libia di Gheddafi o l’Egitto di Mubarak, ma si può ben affermare che la forma di violenza più dura e pervasiva fosse il racket, l’estorsione a tutti i costi. Tutto questo può sembrare solo apparentemente una violazione “morbida” dei diritti della persona, che fa meno rumore, ma è altrettanto pericolosa, perché giorno dopo giorno crea solidarietà, la gente si organizza anche solo per condividere quel profondo senso di frustrazione che ti lascia quotidianamente il dover fare i conti con il poliziotto o l’amministratore usuraio.
Un esempio di questa contrapposizione? Due giovani, due inconsapevoli protagonisti della rivoluzione, uno antitesi dell’altro. Da un lato c’è Mohamed Bouazizi, il martire tunisino morto a soli ventisei anni dopo essersi dato fuoco in segno di protesta contro l’ennesimo abuso di potere che aveva appena subito. Un giovane come tanti che, pur essendosi laureato, era costretto a fare il venditore ambulante pagando tangenti ai vigili urbani di Sidi Bouzid, la cittadina dove viveva. Dall’altra parte c’è Sakher Materi, il genero di Ben Ali, giovane rampollo della famiglia del dittatore, solo ventinovenne, divenuto uno degli uomini più ricchi del Paese. Materi, sino all’ultimo giorno prima della sua fuga rocambolesca in Qatar, era a capo di una parte dell’impero economico di Ben Ali, i suoi interessi spaziavano dal campo della telefonia, alle proprietà immobiliari, per finire con il suo hollywoodiano parco macchine di lusso. Su un cablo diplomatico Usa, pubblicato da Wikileaks, si legge: “Materi ha sempre vissuto nel mezzo di grande lusso e grandi eccessi, ciò spiega le crescenti preoccupazioni di Ben Ali nei confronti di questo parente, che viene percepito come una minaccia”. All’interno di questo quadro complessivo, una quasi-mafia, come la definisce l’ambasciatore inviato da Washington, Robert F. Godec, “sembra che la metà del mondo degli affari in Tunisia possa avvalersi dei suoi rapporti con Ben Ali grazie a matrimoni e, a quanto pare, molti hanno abbondantemente goduto dei vantaggi di questa parentela”.
Tutto questo è ormai acqua passata, l’attuale regime di transizione guidato dalla cosiddetta troika, i tre partiti principali del Paese, ha nominato un amministratore unico dei beni confiscati alla famiglia di Ben Ali, anche se, il recente scandalo legato alla filiale tunisina della Nestlé – una vera e propria transazione illegale ad opera dell’autocrate – rischia di essere la punta dell’iceberg per una serie di attività economico/finanziarie difficilmente riutilizzabili, rileva Saber Wajdi, avvocato fiscalista di Tunisi. Certamente, il governo farà di tutto per rilanciare un’economia stagnante ormai da quasi un anno, stando alle cifre della Banca centrale tunisina. Un aiuto fondamentale può arrivare dall’esterno. Ritornando verso Nord, sulla strada che collega Sousse ad Hammamet, sorge il nuovissimo aeroporto internazionale di Enfidha, uno dei più moderni di tutta l’Africa, un’opera realizzata e gestita dal colosso turco delle costruzioni Tav. Ankara, dopo un timido approccio, ha dato pieno sostegno alla rivoluzione dei gelsomini, tramite una serie di principi guida: il rifiuto del ricorso alle armi e alla violenza generalizzata, la non ingerenza da parte dei Paesi occidentali nelle rivolte della primavera araba e maggiori investimenti in tutta la regione. Del resto, l’islamismo erdoganiano a carattere moderato ha molti punti in comune con una parte dell’establishment politico tunisino che gestisce la transizione. La piattaforma politica di Ennahda, il partito islamico tunisino vincitore delle ultime elezioni, è molto simile a quella messa in piedi dal partito del leader turco, l’Akp. La sintonia tra Erdogan e l’attuale primo ministro nonché segretario generale di Ennahda, Hamad Jebali, potrebbe saldare un’alleanza strategica tra i due Paesi.
Non è questo l’Islam che fa paura, quello che cerca di far ripartire il volano economico grazie ad iniziative quali il Forum sull’economia islamica, recentemente organizzato per la prima volta a Tunisi. Si stima, che nei prossimi anni la Tunisia avrà bisogno di una somma notevole di finanziamenti, tra i 35 e i 45 miliardi di dollari, per realizzare importanti progetti infrastrutturali. A riguardo, il presidente della Banca islamica per lo sviluppo, Ahmed Mohamed Ali, ha detto di aspettarsi un maggior coinvolgimento del settore privato tunisino. Tuttavia, come ci ricorda lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun, si sta facendo strada un certo Islam che rischia di appropriarsi delle conquiste della primavera araba per avanzare un moralismo di stampo medievale e rifiutare la modernità. L’Europa viene vista come un continente in decadenza, prima di tutto spirituale, a causa, ad esempio, della “peccaminosa” legalizzazione dei matrimoni tra coppie di omosessuali. Sono molti a sostenere che dietro quest’attacco ci sia il ricco wahabismo saudita, principale finanziatore dei movimenti salafiti, anche di quello tunisino. Proprio la Tunisia, sembra essere oggi il terreno di questo scontro. Mentre mi trovo nel Paese, comincia a infuriare la polemica circa la proposta di modifica dell’articolo 28 della futura costituzione, dove s’intende sostituire la parola parità tra uomo e donna con quella di complementarietà. Un argomento classico di quest’islamismo che sembra sempre voler tornare indietro, ancorando la donna solo in relazione all’uomo, quasi a voler rifiutare ontologicamente la parità tra i sessi. Il problema, o meglio la soluzione, è che, in questo pezzo d’Africa, la Repubblica tunisina garantisce alle donne sin dall’agosto del 1956 – data dell’entrata in vigore del Codice di statuto personale – un ampio spettro di diritti: divorzio, impossibilità di essere ripudiate, diritto di aborto e così via. Un patrimonio legislativo che volle lo stesso Bourghiba e che ha permesso alle tunisine di emanciparsi a livello sociale e culturale, ecco perché intendono difenderlo a tutti i costi. Camminando per le vie centrali di Tunisi sembra quasi di rivivere gli eventi dell’anno passato, sono tante le donne che hanno scelto di scendere in piazza per farsi sentire ancora una volta. Aida, una giovane guida turistica freelance che incontro ad Hammamet, si dice convinta che alla fine la Commissione costituente lascerà perdere questa follia della complementarietà, il Paese ha bisogno di altro su cui concentrarsi in questo momento. Come darle torto.