| La Repubblica | Domenica 26 luglio 2009 | Vittorio Zucconi |
TITUSVILLE (Pennsylvania). Tutto quello che resta del fiotto che allagò la Terra è un’ ampollina di liquido scuro, esposta ai fedeli dietro una vetrina, come la reliquia di un santo. «Petrolio», mi addita senza toccare l’ ampolla la signora Zolli, direttricee sacerdotessa di questo tempio-museo costruito fra le quiete colline della Pennsylvania, accanto a un bosco di larici e di cervi, esattamente sopra il terreno dal quale, il 27 agosto del 1859, un avventuriero che si faceva chiamare «colonnello» fece sgorgare il greggio dalla terra perforata. E lanciò, senza neppure rendersene conto, quella rivoluzione e quella industria che oggi muovono il pianeta Terra e che lo stanno asfissiando. Se nell’ Inghilterra del carbone e del vapore cominciò la rivoluzione industriale, fu da qui, dalla terra che un tempo apparteneva alle sei nazioni degli Irochesi che raccoglievano col cucchiaino il «succo delle rocce» in superficie per usarlo come medicinale, che si avviò quella carovana di barili, oleodotti, petroliere, raffinerie, stazioni di servizio, catene di montaggio e armi che raggiungono sei miliardi di esseri umani, poveri o ricchi, ovunque un sacchetto di plastica arrivi. ( segue dalla copertina) Eppure luogo meno trionfale, meno pomposo, più timido, con la scontrosità della Pennsylvania che Michael Cimino raccontò nel suo Cacciatore, potrebbe essere immaginato di questa languida cittadina di seimilaquattrocento abitanti, molti dei quali studenti in un campus della Università di Pittsburgh. Un villaggio qualsiasi, nel «grande ovunque americano», che sta nascosto tra le infinite valli degli antichissimi monti Appalachiani, la spina di roccia logorata dalle ere geologiche fra l’ Alabama e Terranova. Ironicamente, per il Paese che inventò l’ industria del petrolio, nessuna autostrada lo raggiunge, nessun viandante lo attraversa se non smarrisce la strada, e rari turisti transitano avanti e indietro lungo una Main Street rimasta intrappolata nel tempo, dove non ti sorprenderebbe vedere Superman bambino sulla Ford Modello T del padre. Soltanto perché io sono l’ unico passeggero, e visibilmente adulto, sul finto tranvaino turistico che offre per cinque dollari il giro della città, la guida mi addita, con pudore, un palazzetto di mattoni rossi a tre piani che negli anni della “corsa al petrolio” era il più vivace e frequentato bordello della contea. E oggi ospita, per pura coincidenza, un negozio di abiti da sposa che quelle povere ragazze di fine Ottocento costrette ad amplessi fetidi coni trapanatori del petrolio avrebbero sognato invano. Tutto quello che rimane del fiotto che sgorgò dal campo dove ora sorge il museo è appena abbastanza greggio per alimentare la riproduzione (autentica, come si dice qui) della prima trivella del finto colonnello Edwin Drake, un secolo e mezzo fa, e per mostrare ai visitatori delle scuole come funziona l’ estrazione del petrolio che non c’ è più. Se Titusville, battezzata con il nome del fondatore, non è diventata una città fantasma come le città minerarie del C o l o r a d o , d e l Klondike, della California quando le vene aurifere si esaurirono, è per il campus universitario e per la presenza di una fabbrica di plastica, alimentata con il petrolio importato dall’ Arabia Saudita. Due motel a una stellina, l’ immancabile grande magazzino di ciarpame made in Cina, il Wal Mart, quattro saloone una dozzina di ristoranti alla svelta sono tutto quello che rimane di una scoperta che avrebbe prodotto, centocinquanta anni più tardi, una ricchezza mondiale da milletrecento miliardi di dollari annui per le nazioni produttrici di petrolio. E che qui, nella terra spompata, è un ricordo. Il petrolio greggio, per chi non lo avesse mai visto da vicino, è una cosa che fa schifo, come è ovvio che sia un distillato di putrefazioni organiche millenarie. Ma qui non si avverte più nell’ aria quell’ odore di corruzione sulfurea che mi rimase per sempre nelle narici dai giorni della Prima guerra del Golfo, quando Saddam Hussein nel febbraio del 1991 allagò il Kuwait per la rabbia di averlo perduto. Sono ormai solo i nomi dei paesi e dei luoghi che si attraversano nel labirinto degli Appalachiani per raggiungere Titusville da Pittsburgh che ricordano che cosa esplose qui, nomi come Oil City, Pithole (il buco del pozzo, oggi villaggio fantasma) e Oil Creek, il torrente del petrolio, nel quale ancora affiorano striature luminescenti di greggio. Alla metà dell’ Ottocento, quando arrivò il “colonnello” Drake, che si era attribuito il grado fasullo, il fetore di petrolio era pungente. Furono quell’ odore, la tradizione dei nativi che lo scucchiaiavano dalle pozzanghere e il traffico dei pochi barilotti usati per accendere i lumi a petrolio ad attirare il “colonnello” e a spingerlo a chiedere i diritti di esplorazione al proprietario dei terreni, che neppure immaginava di essere seduto sopra il futuro del mondo. Drake arrivò a Titusville quando il paese era un grumo di casette di legno attorno a un “trading post”, un emporio per il commercio con gli indiani della vicina valle dell’ Ohio, con una borsa di pelle, un cambio di mutandoni, duemila dollari in contanti ottenuti da finanziatori di Wall Street e lo spazzolino da denti con le setoline logore che la badessa del tempio, la signora Zolli, figlia di generazioni di immigrati italiani piovuti sulla Pennsylvania, mi mostra compiaciuta. Ai geologi, come agli abitanti originali degli Appalachiani, la presenza di petrolio nel sottosuolo era evidente,e la nafta, da esso derivata, era conosciuta all’ umanità da secoli, probabilmente parte della inestinguibile miscela infernale che le navi di Bisanzio lanciavano sulle flotte nemiche, il fuoco greco. Ma quando, dopo ripetuti fori nella terra, e debiti per rifinanziare la ricerca, il primo “gusher”, il primo fiotto uscì dal praticello fangoso, la sua intuizione non fu la materia oleosa succhiata ai sedimenti lasciati dall’ oceano tiepido che aveva inondato questa valle per milioni di anni. Fu nella visione della domanda insaziabile che il mondo avrebbe sviluppato per quella schifezza maleolentee fino ad allora quasi inutile, perché il petrolio in quel 1859 era una soluzione alla ricerca di un problema. Un carburante senza un motore. Mancavano ancora diciassette anni alla messa a punto del primo motore a quattro tempi e a combustione interna, creato da Daimler, Otto e Maybach nella lontanissima Germania. E decenni alla scoperta della superiorità del motore diesel sulle caldaie a carbone per le navi da battaglia, insaziabili divoratrici di nafta. Ma qualcun altro, anche meglio del finto colonnello, aveva capito quale inimmaginabile ricchezza la sua trivella in Pennsylvania aveva stappato. Il suo nome era John D. Rockefeller, piccolo commerciante di Cleveland, che dieci anni dopo la scoperta del giacimento nel cuore dei monti della Pennsylvania già si era impadronito del controllo dell’ ottanta per cento di tutte le raffinerie della regione, necessarie per trasformare il brodo nero in carburanti, con la sua Standard Oil. La reazione a catena che avrebbe travolto l’ intero pianeta era partita. In tre anni, le catapecchie di Titusville sarebbero cresciute per ospitare quindicimila persone, il doppio di oggi, diecimila nella vicina Pithole, ventimilaa Oil City, con tralicci fitti come oggi i larici e i pioppi che hanno misericordiosamente ricoperto e risanato la terra trasformata in fango dalle ruote dei carri e dagli zoccoli dei cavalli F che trasportavano le botti. Pozzi e trivelle spuntarono a caso, senza regole o norme di sicurezza, comei cercatori d’ oro coni pentolini nel Klondike, talmente vicini e fitti da scatenare incendi ed esplosioni che in un solo giorno avrebbero incenerito ottanta persone, cremate e raccolte in una fossa comune senza crocio nomi. Sgorgarono marche di lubrificanti e carburanti destinate a stamparsi sulle pareti di ogni garage, Quaker Oil, dalla setta di quaccheri che qui erano emigrati, Pennzoil, Kendall, Sunoco, e la più celebre, la Exxon, partorita dalla Standard Oil dei Rockefeller,a sua volta figlia della Pennsylvania Rock Oil Company. Titusville era diventata la città del fango, dove era più faticoso estrarre i carri dalla terra collosa che estrarre il petrolio. Una vampata che, come quella che consumò la vita di ottanta uomini, cominciòa spegnersi nei primi anni del Ventesimo secolo, quando un oceano incomparabilmente più vasto e facile da estrarre fu scoperto sotto la prateria del Texas. Il regno di Titusville, i suoi sontuosi bordelli e saloon, le fonderie che erano spuntate nelle valli vergini degli altri fiumi vicini, il Monogahela, il fiume della luna, l’ Ohio, l’ Allegheny, conobbero una seconda, fuligginosa primavera nella Seconda guerra mondiale, quando si dissanguarono per alimentare la mobilitazione bellica. Mentre Detroit era l’ arsenale della democrazia, Titusville e la sua regione fornivano il carburante per far funzionare le macchine da guerra. Oggi il “jurassic park” della rivoluzione nera sta esausto, come se il parto di quella mostruosità l’ avesse sfiancato. I sedicimila pozzi ancora attivi in queste valli producono 4.027 barili al giorno, appena un cucchiaio di “olio di roccia” rispetto agli otto milioni di barili pompati – ogni giorno – soltanto dai deserti d’ Arabia. Resta, sotto l’ occhio affettuoso della signora Zolli, la reliquia di un santo che li ha sedotti e abbandonati. Il tranvaino per turisti che non ci sono funziona a batterie elettriche, per non inquinare la città fossile di un combustibile fossile.