UN UOMO NON PIANGE MAI di Faïza Guène
In un medesimo terreno possono crescere tanti alberi di diverse specie. Tutti possono prosperare e dare i frutti migliori, come tutti possono purtroppo anche seccarsi o marcire. Risponderanno a quell’humus in maniera differente, affondando o meno nel profondo le proprie radici. Ma, ciascuno le proprie, non potrà rinnegarle. Espiantati o trapiantati, con la propria linfa. Senza che questo porti in sé un’accezione negativa, tutt’altro. Poiché è stupefacente come si sia, alcuni acero, altri abete, faggio, noce… Semi in grado di germogliare, frutti incapaci di cader troppo lontani dalla pianta, rami impossibilitati a tagliare il proprio tronco.
Com’è nel romanzo Un uomo non piange mai di Faïza Guène, edito da Il Sirente per la collana Altriarabi migrante e tradotto dal francese a opera di Federica Pistono, che a queste ultime due metafore dedica il titolo di altrettanti capitoli. E spiega: “Lei conosce la storia di Babar, il re degli elefanti? (…) Babar camminerà impettito su due zampe, indosserà completini a tre pezzi, un cravattino, guiderà un auto decapottabile ma sarà sempre un elefante”.
Ecco, questo è un libro che, con ridanciano cinismo, non manca occasione di sottolineare come la “specificità rinnegata” sia una frattura, un’incongruenza basilare, ove spesso si arena la veridicità di ogni discorso sull’integrazione. E appunto evidenzia, quasi riga per riga, la lettura, profondamente auto-ironica, che del mondo rende il protagonista Mourad. Giovane algerino naturalizzato francese o giovane francese di origini algerine, come dovremmo definirlo? Quali confini, lessicali e geografici, dovremmo restituirgli?
“Quello che considero traumatizzante è questa contraddizione — dirà lui a un tratto del romanzo — Voglio dire, per essere completamente francesi, bisognerebbe riuscire a negare una parte della propria eredità, della propria identità, della propria storia, del proprio credo… E, perfino ammettendo che sia possibile riuscirci, si verrebbe riportati continuamente alle proprie origini. A che scopo, allora?”
Mourad, lui, che in prima persona narra questo periodo di malattia del padre, lasciando per altro presumere (la dedica indica) un tratto molto autobiografico nel racconto di questa autrice, nata in Francia da genitori algerini e accolta “in patria” come portavoce delle banlieue. Lui, che sempre lega un episodio attuale a un ricordo di infanzia, ogni capitolo, sovente esemplificando “di pancia” nel cibo lo “scontro di culture”. Com’è ad esempio per lo zio Aziz, che sussurrava all’orecchio dei montoni prima di tagliar loro la gola, portato alla memoria da un costosissimo hamburger alla tartara: “ecco un tipo di integrazione in cui non mi riconoscevo”. Lui, Mourad, che, non può dirlo, ma ormai preferisce le brioche al rabarbaro servite dal maggiordomo Mario rispetto ai makrout e ai griwouch amorevolmente preparati dalla madre.
Così muovono i personaggi del racconto, calzati nelle proprie caratterizzazioni: dalla madre asfissiante alla sorella iper-emancipata, da chi vuole il rimpatrio a chi la propria rivincita, passando per il padre (che alla fine ce l’ha con l’indiano che prega Ganesh). Un padre che smentisce il titolo del volume e piange: per la figlia ritrovata, per il significato di un record sportivo… Perché “nessuno riparte mai da zero, nemmeno gli arabi, che lo zero lo hanno inventato, come diceva mio padre”. Così ciascuno di noi porta uno stato “non zero” nel mondo. Portiamo il nostro, incontriamo l’altrui. Con diritto a un suolo, per il nostro albero.
Sanzia Milesi per il Colophon