| alibi online | Lunedì 4 maggio 2009 | Saul Stucchi |
Nella nostra società i motivi e le occasioni per la fuga sono pressoché infiniti. In una grandissima parte del resto del mondo, invece, i primi sono forse ancora più numerosi, mentre scarseggiano le seconde. Nelle società arabe più chiuse la fuga è particolarmente ardua e quindi diventa ancora più ambita e sognata. Una minima infrazione alle leggi, alle regole o anche solo alle convenzioni sociali costa molto cara, soprattutto se a commetterla è una donna. Una donna non può assentarsi dal lavoro, figurarsi lasciare la casa o abbandonare il marito, che per contro può invece piantarla in asso come e quando vuole pur continuando a rimanere legalmente sposato con lei per i successivi sette anni.
Questa situazione di evidente e soffocante disparità genera inevitabilmente pressioni fortissime sulle donne che ne vengono schiacciate e spesso stritolate. Una di loro è la protagonista de l’Amore ai tempi del petrolio, della scrittrice egiziana Nawal al-Sa’dawi. A prima vista si tratta di una donna “normale”, puntuale col pagamento delle tasse e senza macchie sulla fedina penale, che un giorno decide di assentarsi. Beh, forse normale del tutto non era, almeno agli occhi dei conoscenti: già la professione che aveva scelto, l’archeologia, avrebbe dovuto mettere in guardia da tempo gli uomini che avevano autorità su di lei, a cominciare dal marito. Che idea balzana quella di scavare nella terra alla ricerca di divinità femminili! E ora la ricercatrice, “armata” di scalpello (un analista suggerirebbe forse una lettura simbolica della scelta di questo strumento di lavoro), è sparita senza aver dato preventiva comunicazione e averne avuto l’indispensabile, ma solo eventuale, permesso. Sicuramente è coinvolta in qualcosa di losco. Una donna morigerata e con la testa sulle spalle non sparisce in questo modo: non sparisce proprio.
Dai titoli dei giornali dedicati all’incresciosa vicenda si dipana la storia di questa fuga che appare come una lunga sequenza onirica, un incubo che lascia intravedere (ma a chi non è lento di comprensione il racconto appare come una denuncia in piena regola) la condizione di inferiorità sociale, professionale, culturale, ma ancor prima “umana” a cui è condannata la donna in una società non apertamente nominata ma che può essere identificata in una qualunque di quelle sottoposte ai regimi illiberali del Medio Oriente, a cominciare dal “democratico” Egitto.
Su tutti domina Sua Maestà che non sa leggere né scrivere, ma non importa, del resto: non erano forse analfabeti gli stessi profeti, tutti uomini?! Con il suo paternalismo autoritario governa e regge una società di servi che a loro volta spadroneggiano sulle “loro” donne. Ma ancora più importante di Sua Maestà è il petrolio che si spande e s’infiltra dappertutto, tutto coprendo e tutto corrompendo. Le donne sono costrette a trasportarlo in pesanti barili in bilico sulla testa e questa fatica già dimostra – lo dice la protagonista – quanto gli asini siano più intelligenti delle donne perché trasportano i pesi sulla schiena e non sulla testa, mentre gli uomini si rifiutano di piegarsi a questa mansione. “Per la donna invece, era vacanza solo il giorno del suo funerale. La semplice differenza stava in una sola lettera sulla macchina da scrivere, che convertiva la gioia in funerale”.
Proprio come il petrolio, è vischioso il rapporto della donna con il marito da cui fugge, per incontrare un altro enigmatico uomo. Ma uno scambio di battute tra la protagonista e quest’ultimo è illuminante sul buio della situazione:
“Sì, sono un essere umano come te, con dei diritti.”
“Che cosa?”
“I diritti della donna, non li conosci?”
“Non ne abbiamo mai sentito parlare, noi abbiamo solo la legge dei diritti dell’uomo, nient’altro.”
Soltanto una risata può tenere viva la speranza di un cambiamento.